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Trans
“Quando dico che non c’è rapporto sessuale, avanzo molto precisamente questa verità: che il sesso non definisce alcun rapporto nell’essere parlante”. Il lettore avrà probabilmente riconosciuto questo passaggio tratto dalle primissime battute del Seminario XIX del quale riproponiamo, nelle pagine seguenti, un estratto che introduce direttamente il tema scelto per questo numero della rivista: la questione trans. Continua Lacan: “Non nego affatto la differenza che c’è, fin dalla più tenera età, fra quella che chiamiamo una bambina e un bambino”. Ma a quale differenza fa riferimento? Che statuto ha quella che nelle righe a venire nominerà come la “piccola differenza”? Lacan avvisa subito gli uditori che qui potrebbero non sapere di che cosa egli stia parlando. Lo dà quasi per assodato, e si potrebbe azzardare l’ipotesi che sia anche un invito a non cercare di giungere presto a una comprensione, invito che del resto spesso rivolge al suo uditorio. Così, indica subito la trama su cui andrà a intessersi il discorso: “l’introduzione del pas-tout qui è essenziale”. È quanto ha già in lavorazione da qualche tempo e sfocerà poi nella messa a punto delle formule della sessuazione. L’orizzonte di questa traiettoria può essere un prezioso corrimano in queste pagine. La ‘piccola differenza’ è presto distinta come organo, fa notare Lacan, e di questo termine mette subito in rilievo l’etimologia: dal greco ὄργανον, strumento. Solo alcune pagine dopo darà la chiave per apprezzare appieno questa precisazione: “[...] un organo è uno strumento solo per il tramite di ciò su cui si fonda ogni strumento, e cioè il fatto di essere un significante”. Ed è su questo punto che può giocarsi quello che definisce l’‘errore’, tanto dibattuto al giorno d’oggi forse più che al tempo: “l’errore comune di non vedere che il significante è il godimento e che il fallo è soltanto il suo significato”.
Il brano di Jacques-Alain Miller inserito in questo numero, La soluzione trans, contiene l’intervista rilasciata a Libération il 2 marzo del 2023 in occasione della pubblicazione del Seminario XIV seguita da Sei risposte a una donna trans, Olga. Si tratta della risposta alla lettera che Olga, una donna trans, ha mandato a Jacques-Alain Miller dopo la pubblicazione del libro La solution trans.
La questione trans è qui accennata in pennellate fulminee e asciutte, punti luce dell’elaborazione portata avanti nell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi che mira a preservare il posto del soggetto, in quanto soggetto dell’inconscio, diviso, non trasparente a se stesso. Posizione che dissente dall’idea, sempre più diffusa oggigiorno, di un soggetto che potremmo definire monolitico che risponda al motto “Io sono ciò che dico di essere”. Nella scia di un’equazione che sovrappone il soggetto dell’enunciato a quello dell’enunciazione e che rintraccia nell’asserzione dell’individuo qualcosa di ascrivibile all’ordine di una verità completa, fissa, che schiaccia colui che parla sul proprio detto professandone la totale corrispondenza, il posto del soggetto dell’inconscio non è contemplato e l’interpretazione non ha spazio, è rigettata. “Interpretare – chiarisce Miller – non è assolutamente una mancanza di rispetto. Significa accogliere una persona trans come un soggetto, proprio come una persona non trans”.
L’ampia sezione centrale, intitolata Sulla questione trans, prende le mosse dal solco tracciato da Lacan e Miller proponendo al lettore uno spaccato, vivace e denso, di alcune declinazioni del ricco lavoro sull’argomento in corso nell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi. Tale lavoro, portando avanti una rigorosa ricerca teorica, si propone come finestra di dialogo nel dibattito politico, sociale e sanitario. Il lettore troverà in queste pagine contributi molto variegati, fra cui: la conversazione con Paul B. Preciado invitato alle Journée dell’ECF del 2019 e la risposta punto per punto alle argomentazioni esposte, successivamente, nel suo libro Sono un mostro che vi parla; il punto della situazione Le gislativa italiana; lo stato dell’arte sulla situazione pediatrica e alcune delle considerazioni maturate da alcuni colleghi sulla possibilità, oggi molto dibattuta, di un avvio precoce del trattamento.
Proseguiamo poi con le pagine dedicate all’Orientation lacanienne in cui proponiamo, in continuità con i numeri precedenti, i capitoli VII, VIII e IX di 1, 2, 3, 4, il Corso tenuto da Jacques-Alain Miller nell’anno accademico 1984-1985 al Dipartimento di Psicoanalisi dell’Università di Parigi VIII.
Giacomo Leopardi
Tutto è follia in questo mondo fuorché il folleggiare.
Tutto è degno di riso fuorché il ridere di tutto.
Tutto è vanità fuorché le belle illusioni e le dilettevoli frivolezze.
Così scrive Leopardi nello Zibaldone.
Il poeta nasce nel 1798. Napoleone aveva occupato parte dell’Italia. Leopardi muore nel 1837 quando L’Europa è in piena Restaurazione.
Il padre era un piccolo nobile dello Stato della Chiesa. Come la moglie, era un cattolico tradizionalista. Si augurava che il figlio diventasse vescovo. Grande fu il suo disappunto quando scoprì che alcuni suoi testi in prosa erano stati messi all’Indice dalla Chiesa.
Nel palazzo nobiliare, il conte Monaldo Leopardi aveva costituito un’imponente biblioteca con tutto lo scibile degli Antichi, pagani e cristiani. Lo aveva fatto per vanagloria. Il figlio se ne servì a dovere, sebbene il padre gli avesse messo alle costole dei preti educatori.
Giacomo era un bambino di bell’aspetto. Rapidamente, a causa, com’egli scrive, di “uno studio matto e disperatissimo”, la crescita si arrestò, divenne deforme, gobbo e con gravi problemi agli occhi. Divenne un mostriciattolo, ma non a causa dello studio, quanto piuttosto del morbo di Pott, la tubercolosi ossea, malattia all’epoca sconosciuta.
Ancora bambino, oltre ad apprendere alcune lingue moderne, apprese il latino, il greco e l’ebraico, si iniziò alla filologia ed ebbe il gusto della traduzione. Tradusse, tra gli altri, testi di Omero, Orazio, Virgilio e “La vita di Plotino” scritta da Porfirio.
La sua conoscenza del mondo moderno rimaneva per contro limitata: Chateaubriand, Rousseau, Voltaire, d’Holbach.
Il padre gli impedì di uscire dalla città natìa, Recanati. Per lungo tempo il suo rapporto con il mondo dei letterati fu solo epistolare. Venne così a conoscenza delle opere di Goethe, di Madame de Staël, del Parini e dell’Alfieri, i padri dell’Illuminismo e del Risorgimento italiani.
A 21 anni, in quel buco della sua città natale, produsse poesie che sono veri capolavori, come “L’infinito” e “Alla luna”.
Riuscì infine a partire da Recanati. Visitò Firenze, Roma, Bologna, Milano. Morì a Napoli a 39 anni dopo aver scritto una poesia dal titolo eloquente: “La Ginestra o il fiore del deserto”.
A 17 anni Leopardi inizia un epistolario con Pietro Giordani. Gliera stato detto che costui era il primo scrittore d’Italia. A questo interlocutore lontano, Leopardi invia lettere appassionate, di un amore strano ed eccessivo, dove l’infatuazione per l’interlocutore si mescola con l’amore per il sapere. Dopo che Giordani venne a trovarlo a Recanati, l’amore andò gradatamente scemando. Come Fliess per Freud, Giordani non era all’altezza.
Sempre a 17 anni, Leopardi inizia a scrivere giorno dopo giorno pensieri, appunti, ricordi, osservazioni, note, riflessioni, questioni filologiche, tutto di fila, senza un ordine, in una specie di associazione libera scritta. Egli chiamava questo ammasso di fogli “Pensieri”. Solo al foglio 4.295 (e non è l’ultimo!) lo chiamerà “Zibaldone di pensieri”. Sarà pubblicato circa sessant’anni dopo la sua morte, l’anno della Traumdeutung.
Contemporaneamente al rapporto epistolare con Giordani e alla scrittura dello Zibaldone, Leopardi vide strutturarsi la sua vita con tre conversioni.
La prima è la “conversione letteraria”. Egli passa dagli studi eruditi agli studi letterari, dalla retorica alla poetica.
La seconda conversione è “politica”. Giacomo prende distanza dalle tesi reazionarie del padre e opta per l’unificazione dell’Italia. Che avverrà solo una quarantina d’anni dopo la morte del poeta.
La terza è la “conversione filosofica”, e segna il passaggio dal bello al vero: si tratta della scoperta del “solido nulla” che la ragione consegna all’uomo, cosa che annulla la felicità in quanto tale.
C’è una quarta conversione che aggiungo io e di cui Leopardi non parla apertamente: dal cristianesimo all’ateismo.
Nonostante un riferimento costante, e piccante, al cristianesimo, il termine Natura diventa centrale. “La Natura è lo stesso che Dio”, scrive nello Zibaldone. È il Deus sive Natura. Ma in Leopardi il concetto di Natura è ballerino: va dalla Natura alla Rousseau, alla Natura alla Schopenhauer (di cui non aveva mai sentito parlare), per più o meno attestarsi alla Natura secondo il “Manuale di Epitteto”, da lui tradotto in italiano.
Per Leopardi la filosofia non è il filosofeggiare alla tedesca (cosa di cui ha orrore), ma, come per gli Stoici, si tratta di filosofia pratica. In questo contesto la Natura non si occupa affatto dell’uomo, né delle sue gioie né dei suoi dolori. In questo modo però Leopardi fa l’economia dell’incontro con quel grande Altro che dà e che chiede, riuscendo tuttavia a mettere a tacere il desiderio della madre, la quale lo voleva o baciapile o morto.
Comunque sia, il dolore è la legge della realtà. Eppure la sofferenza comporta un certo piacere. È “il piacere del dolore”. E anche se il piacere durasse tutta la vita, l’animo non sarebbe pago, poiché il suo “desiderio è infinito”. Il doloreè la via più dritta al piacere, o a un’ombra di felicità, così come lo è anche nell’amore. Leopardi ne conclude che Aristotele si era sbagliato con il suo principio di non contraddizione, come deve concludere in un dialogo delle Operette Morali.
L’amore per Giordani non aveva impedito affatto che Leopardi si innamorasse regolarmente di giovani donne, preferibilmente sposate, sebbene con esiti deludenti, e alle quali dedicava poesie sublimi. Sublime è anche “Alla sua donna”, poesia che rivolge, com’egli scrive, a “la donna che non si trova”, alla donna che non c’è, che indica come “l’Una” (“l” - apostrofo - “Una”).
Alla sua morte, Leopardi era praticamente sconosciuto, almeno all’estero. Solo pochi letterati conoscevano i Canti e dei testi in prosa chiamati Operette Morali.
7 anni dopo la morte, il critico francese Sainte-Beuve, lo definisce un poeta fuori tempo e fuori classe, l’ultimo degli Antichi, un Petrarca ateo.
Quando Leopardi era morto da quasi vent’anni, il critico italiano Francesco De Sanctis mette in parallelo Schopenhauer e Leopardi.
Ambedue pongono a principio del mondo un potere cieco e maligno, per l’uno si chiama Wille, per l’altro Natura.
Per Schopenhauer bisogna morire senza cessare di vivere, mentre Leopardi produce l’effetto contrario a quello che egli si propone. “Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtú, e te ne accende in petto un desiderio inesausto”, scrive il De Sanctis.
In una poesia, dal titolo “Risorgimento” Leopardi mette in musica non già il risorgimento politico ma quello soggettivo. La forma di questa poesia non è attraente poiché ricorre al poetare antiquato delle rime baciate e crea così un contrasto tra la profondità del testo e la sua forma, che chiamerei ridicola. Il risorgimento è il racconto della sua vita, articolata in quattro momenti. Ci sono innanzitutto i doni della natura che gli affanni non hanno annullato ma dove si prova un desiderio insaziabile, causa di catene d’infelicità. Poi, secondo momento, la luna si estingue, ed è il massimo del dolore. Terzo momento: c’è un tramonto al pianto: è la condizione di una “disperazione placida” dove addirittura il desiderio di morire si spegne. Al quarto tempo tutto si capovolge sebbene la Natura rimanga muta. Il poeta non può contare che su di sé.
Leopardi si rivolge al proprio cuore:
Ogni conforto mio
Solo da te mi vien.
Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla.
Intervento in italiano al Congresso dell’Association Mondiale de Psychanalyse - Parigi - febbraio 2024.
Tradurre Lacan
Nell’Unerkannte, articolato da Freud con la questione dell’ombelico del sogno, si può identificare il reale? Si potrebbe trattare forse del reale pulsionale? E se così fosse, seguendo Freud che mette in tensione l’ombelico del sogno con il desiderio, quale rapporto intercorrerebbe fra questo reale e il desiderio?
Strasburgo, 26 febbraio 1975, è lo psichiatra e psicoanalista Marcel Ritter a porre a Jacques Lacan questi interrogativi. La risposta improvvisata da Lacan è prolissa – come egli stesso afferma – e originale, tanto che verrà pubblicata nel 1976 in Les Lettres de l’EFP e poi riproposta ne La Cause du désir nel 2019. È un picchetto del punto dell’insegnamento in cui egli si trova, a cui è giusto fino a quel momento; non è dunque un riassunto delle argomentazioni percorse nel tempo, né una parola conclusiva che chiude la questione, anzi, porta l’attenzione su inaspettate sfaccettature da interrogare. Si ha la possibilità, in questa manciata di pagine, di seguire Lacan nel working progress della sua risposta, nelle ferrate ripide della messa in opera di un avanzamento costante e a volte vorticoso – così come, del resto, avviene nei Seminari. “Dunque do la mia risposta attuale. È tutto quello che posso dire: sono arrivato a questo punto” inizia Lacan “non penso sia il reale pulsionale. È difficile da fare capire. Non posso tracciare di nuovo tutta la strada che ho percorso per arrivare a questo punto. Mi meraviglierebbe molto se qualcosa mi spingesse a un’altra concezione”. Lacan accosta invece l’Unerkannte all’Urverdrängt, dunque il ‘non-riconosciu to’ con il ‘rimosso primordiale’, che non può essere detto in quanto è alla radice stessa del linguaggio. L’ombelico è lo stigma, cicatrice di un’origine. Il reale pulsionale se ne distingue, si può parlare di un’analogia sottolinea Lacan, ma non sono esattamente la stessa cosa. Il lettore potrà appassionarsi ai tornanti attraverso cui Lacan darà spessore a questa distinzione. In questo tragitto Lacan ribadirà anche qualcosa sul desiderio, e lo fa senza mezzi termini quando afferma: “il desiderio dell’uomo è l’inferno [...] e lo dico per la prima volta qua davanti a voi oggi”. Una bussola, per i lettori a venire, che orienta nello scansare il rischio di scivolare in letture del desiderio che ammiccano alla pacificazione, a una riconquista romantica di qualcosa di nostalgico. Non è di questo che si tratta quando si parla di desiderio, si sa, e Lacan non esita a rimarcarlo chiaramente.
Il testo di Jacques-Alain Miller scelto per questo numero – breve e incisivo estratto dei Capisaldi dell’insegnamento di Lacan – punteggia lo spostamento dello statuto del soggetto nella doppia riscrittura operata da Lacan del desiderio freudiano, attraverso due delle differenti letture, fatte da Lacan nel tempo, del Wo Es war, soll Ich werden di Freud. Più nello specifico Miller mette a confronto la lettura del 1955 presente ne La Cosa freudiana con il commento successivo di Sovversione del soggetto “per verificare lo scarto di cui si tratta nella concezione di Lacan”. Il brano apre la strada al tema che costituisce il cuore di questo numero: la traduzione. Sarà lo scritto introduttivo di Francesco Paolo Alexandre Madonia ad accompagnare il lettore passo passo nella pulsante e variegata sezione “Tradurre Lacan” che si apre con il testo “Lacan e il problema della traduzione” pronunciato da Antonio Di Ciaccia all’Università degli studi di Palermo il 24 aprile 2024.
Procediamo poi, come di consueto, con l’Orientation lacanienne di Jacques-Alain Miller. In questo numero compaiono altri tre capitoli di 1, 2, 3, 4, la cui pubblicazione è iniziata nel numero precedente della rivista. Si tratta del corso tenuto da Jacques-Alain Miller nell’anno accademico 1984-1985, incentrato sul Seminario XIV di Jacques Lacan La logica del fantasma, da poco pubblicato anche in italiano per la casa editrice Einaudi.
Sul patriarcato
Le chiavi della psicoanalisi è il titolo che è stato dato a un’intervista che il Dottor Lacan aveva accordato in rue de Lille alla giornalista Madeleine Chapsal il 31 maggio 1957 per il settimanale francese L’Express. La nostra traduzione si basa sull’intervista così come è stata ripubblicata nel n. 99 de la rivista La Cause du désir.
Il lettore sarà meravigliato di trovarvi un Lacan che si esprime con grande semplicità e chiarezza, rispondendo con attenzione e precisione alle varie domande, senza tuttavia venir mai meno allo spirito e all’etica della psicoanalisi freudiana.
Sarà una delizia anche per il lettore non avvertito.
Abbiamo deciso di iniziare in questo numero il Corso di Jacques-Alain Miller tenuto al Dipartimento di Psicoanalisi dell’Università di Parigi VIII nell’anno accademico 1983-1984 dal titolo “1, 2, 3, 4”. Qui avremo solo alcune lezioni, le altre seguiranno nei prossimi numeri.
Già da tempo la nostra rivista aveva iniziato la pubblicazione di alcuni di questi Corsi, la cui serie era stata da Jacques-Alain Miller denominata “L’Orientamento lacaniano”. Le lezioni erano ordinate cronologicamente sebbene la pubblicazione seguisse l’opportunità offerta dai vari colleghi con le loro traduzioni. Di questi Corsi, dal 1992 in poi La Psicoanalisi ne ha pubblicati sette.
Rispondendo positivamente alla nostra richiesta, Jacques-Alain Miller tempo fa aveva accettato che “L’Orientamento lacaniano” venisse pubblicato in vari volumi per i tipi della casa editrice Astrolabio. Nelle librerie sono per ora disponibili l’ultimo di questi Corsi, ossia L’Uno tutto solo, del 2010-2011; il primo, dal titolo originale proposto dall’Autore, Capisaldi della psicoanalisi, del 1981-1982, e un terzo volume, Divini dettagli, del 1989. Altri due volumi, già tradotti, sono in attesa di pubblicazione: Delle risposte del reale, del 1983-1984, ed Estimità, del 1985-1986. Altri sono in traduzione. Comunque, in modo
parziale, altri Corsi sono stati pubblicati, per esempio quello sull’Angoscia, casa editrice Quodlibet, o quello su Pezzi di reale, casa editrice Astrolabio, o anche il commento di Miller pubblicato nella nostra rivista sul Seminario Da un Altro all’altro di Lacan.
Su questa lunghezza d’onda abbiamo deciso di pubblicare la traduzione del Corso “1, 2, 3, 4” poiché vi si rende chiaro gli elementi che Lacan prende a prestito dalla logica e dalla matematica nel suo Seminario La logica del fantasma, ultimo uscito in Francia, e che il lettore potrà avere, in traduzione italiana per i tipi di Einaudi, nella prossima primavera.
In questo numero notiamo, tra i diversi articoli riportati, l’intervento introduttivo dell’ultimo “Pipol”, che si è tenuto a Bruxelles nel luglio 2023, e la tematica che vi ha sviluppato Jacques-Alain Miller.
Abbiamo voluto includere in questo numero un testo sulla verità di Christiane Alberti, attuale Presidente dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi.
Beatrice
Tanto gentile e tanto onesta pare
La donna mia quand’ella altrui saluta,
Ch’ogne lingua devien tremando muta,
E li occhi non l’ardiscon di guardare.
Ella si va, sentendosi laudare,
Benignamente d’umiltà vestuta;
E par che sia una cosa venuta
Da cielo in terra a miracol mostrare.
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per gli occhi una dolcezza al core,
che ’ntender non la può chi non lo prova:
e par che de la sua labbia si mova
uno spirito soave pien d’amore,
che va dicendo a l’anima: Sospira.
Termina così, «Sospira», uno dei più bei sonetti della Vita Nova.
In quella parte del libro della mia memoria, scrive Dante, Incipit Vita Nova, comincia una nuova vita. Si tratta del proemio di un’opera composta in poesie e in prosa, in cui Dante celebra la sua gentilissima donna: Beatrice.
Dante racconta di averla incontrata per la prima volta quando Beatrice aveva nove anni e tre mesi, e lui, dei suoi nove anni, all’ultimo trimestre. Beatrice era vestita con un abito di «nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno», come conveniva alla sua giovane età. Al vederla, «lo spirito della vita [di Dante], lo quale dimora nella secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: “Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur michi”» [Ecco il dio più forte di me, che venendo sarà il mio padrone].
Dante la vide e «lo spirito animale» più elevato, quello che si percepisce tramite lo sguardo e l’immagine del viso, «disse queste parole: “Apparuit iam beatitudo vestra”. [Apparve così la vostra beatitudine] […] D’allora innanzi dico che Amor segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata».
Veder Beatrice, un vero miracolo di Dio, spinge l’anima di Dante a sentirsi soggiogata e ormai promessa sposa all’Amore.
Nove anni dopo, quando Dante e Beatrice avevano 18 anni (due volte nove), ecco che «questa gentilissima […] apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne […] e volse gli occhi verso quella parte ov’io era molto pauroso, e […] mi salutoe molto virtuosamente, tanto che mi parve allora vedere tutti li termini della beatitudine». Era l’ora nona di quel giorno, e fu la prima volta che «le parole» di Beatrice «si mossero per venire a li miei orecchi». Dante corse allora a chiudersi in una camera e pensando a questa «cortesissima» gli sopraggiunse un «soave sonno ne lo quale m’apparve una meravigliosa visione» dove in una «nebula di color di fuoco […] io discernea una figura d’uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse […] e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: “Ego dominus tuus”. [Io sono il tuo signore]. Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda salvo che involta mi parea in un drappo sanguigno leggermente […e] conobbi ch’era la donna della salute [ossia Beatrice], la quale m’avea lo giorno dinanzi degnato di salutare». E questo signore [ossia l’Amore] aveva in mano una cosa che ardeva e parve dirmi: «Vide cor tuum» [Guarda il tuo cuore], cuore che fece mangiare alla donna dopo averla svegliata. Il sogno termina quando, dopo aver pianto, l’Amore prende nelle braccia questa donna e se ne va in cielo. Dante si sveglia, e scrive un sonetto rivolto a «tutti li fedeli d’Amore». Due incontri, un sogno, dove la fanno da padrone lo sguardo e la voce. Sguardo e voce all’opera, anche quando Dante tenta di tenere segreto l’amore per Beatrice. A questo scopo Dante si serve, come schermo, di un’altra donna, per fungere da «schermo della veritate […] Con questa donna – dice – mi celai alquanti anni e mesi», e facendole, a questa donna «schermo di tanto amore», delle «cosette per rima». Ma non fu l’unica donna-schermo. Altre vennero a mascherare il desiderio di Dante per la sua gentilissima donna.Beatrice tuttavia non apprezza affatto queste «cosette per rima» che Dante rivolge alle donne-schermo, tanto che, incontrandolo, «mi negò – scrive Dante – lo suo dolcissimo salutare, ne lo quale stava tutta la mia beatitudine».
E da qui: catastrofe! Pianti, pianti e lamenti!
Altro sogno: l’Amore, con un linguaggio incomprensibile, oscuro, spinge Dante a prender atto che lui necessita di una «trasfigurazione». Solo tramite un radicale mutamento, Dante potrà capire che la felicità non consiste nel ricevere qualcosa dalla donna amata, quanto piuttosto nel darle il proprio amore. Ma come si fa a dare il proprio amore? Basta solo cantare le lodi della bella.
Muore il padre di Beatrice. Neri pensieri e perfino allucinazioni appaiono allora, naturalmente sempre all’ora nona.
Dante, «come farnetica persona», delira sulla propria morte, delira sulla morte della sua Beatrice, fino a vederla, in un’«erronea fantasia», come «donna morta».
Annunciata, la morte di Beatrice avviene realmente, «quando lo segnore de la giustizia», ossia Dio, la chiamò. Dante per tre motivi non vuole esprimersi su questa morte, anche perché, dice, «non sarebbe sufficiente la mia lingua a trattare come si converrebbe di ciò».
Si sofferma tuttavia lungamente a chiosare sul numero tre e sul numero nove, svelandone il significato: «[…] questa donna fue accompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitate». Il numero tre è, infatti, la radice del numero nove. Forse, conclude Dante, qualcun più sottile di me farebbe una cosa più sottile ancora, ma questa «è quella che io veggio, e che più mi piace».
Per Dante un filo rosso lega questo trio: Beatrice, Amore, Dio.
Malgrado questo solido trio, Dante dice di essere «più volte combattuto in me medesimo», poiché è come se Amor gli facesse apparire davanti a sé altre donne, come quell’altra «gentile donna, giovane e bella», che «li occhi miei si cominciarono troppo di vederla». «Maledetti occhi», impreca Dante, diviso in due. Di queste due parti in cui è scisso, dice Dante: «L’una parte chiamo cuore, cioè l’appetito, l’altra chiamo anima, cioè la ragione». Ma in questa lotta tra il cuore-appetito che spinge Dante verso un’altra donna giovane e bella e l’anima-ragione che lo dissuade dal cedere alla tentazione, prevale, dice, il «maggiore desiderio era lo mio ancora di ricordarmi della gentilissima donna mia». Il desiderio verso Beatrice supera ogni altro desiderio.
Infine un’ultima visione, che rimane, nel testo, segreta. Scrive Dante: «[…] apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta [Beatrice] infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei. E di venire a ciò io studio quanto posso, sì com’ella sae veracemente. Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono [ossia Dio], che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna. E poi piaccia a colui che è sire della cortesia [ossia Amore], che la mia anima se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di colui qui est per omnia secula benedictus [e qui, di nuovo, è convocato Dio]».
Effettivamente Dante tratterà degnamente di Beatrice poiché la canta in tutta la Divina Commedia. E, per cantarla, Dante si serve solo di due strumenti: lo sguardo e la voce.
Nel Purgatorio, Dante vede Dio solo tramite lo sguardo di Beatrice.
Nel Paradiso, Dante per arrivare a vedere Dio gli occorre una specie di cordata, fatta di sguardi e suppliche che vanno da Beatrice, a santa Lucia, a san Bernardo da Clairvaux, e infine alla Vergine Maria, l’unica vera chiave del desiderio di Dio. Solo tramite lei Dante può accedere alla visione beatifica e contemplare il Dio uno e Trino direttamente.
Ma che vede?
Nella profonda e chiara sussistenza
Dell’alto lume parvemi tre giri
Di tre colori e d’una contenenza (Canto XXXIII, v. 115-117)
Insomma, vede un nodo borromeo. Ma vederlo è goderne.
Come, infatti, Dante aveva appena detto:
La forma universal di questo nodo
Credo ch’i’ vidi, perché più di largo,
Dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.(Canto XXXIII, v. 91-93)
Beatrice, chi era? Una donna reale? Un’idealizzazione della donna? Una figura allegorica?
Portata all’estremo, non è forse la raffigurazione della Domina dell'Amor cortese, la quale è qui addirittura angelicata?
La beatificazione di Beatrice effettuata da Dante ha alimentato un’enorme letteratura su questa figura che rappresenterebbe una miriade di simboli religiosi, tutti più o meno consoni con la teologia di san Tommaso d’Aquino.
Per Boccaccio, Beatrice era una persona realmente esistita. Boccaccio, autore della prima biografia di Dante, era quasi suo contemporaneo. Boccaccio sminuisce il ruolo e il valore di Beatrice, essendo ormai lui al di là del tempo del «dolce stil nuovo», tuttavia non mette mai in dubbio l’identificazione di Beatrice con Bice Portinari, figlia di un ricchissimo banchiere – la cui famiglia, un secolo dopo, finanzierà il pittore fiammingo Hugo van der Goes, autore del famoso Trittico degli Uffizi.
Dante indirizza il suo gentil amor cortese a una giovane fiorentina, la quale, però, è ben al di fuori delle sue possibilità reali. Del resto, ben presto, Beatrice si sposa con Simone de’ Bardi e, a 24 anni, muore di parto nel 1290. Dante aveva già terminato la Vita Nova. Parla della morte ma non si cura affatto del matrimonio di Beatrice.
Poco dopo la morte di Bice Portinari, Dante si sposa con Gemma Donati, a cui era già legato da almeno una decina d’anni. Gemma non seguirà Dante in esilio. Eppure gli diede diversi figli, tra cui Piero, il primo commentatore della Divina Commedia, e Antonia la quale sarà a Ravenna a chiudere gli occhi del padre morto e poi sarà lei a chiudersi in convento con il nome di suor Beatrice.
Beatrice fa esplodere la divisione soggettiva di Dante. Sebbene tutto preso dall’amore angelicato per lei, Dante barra con un totale, perpetuo silenzio il suo rapporto coniugale con Gemma. In verità la sua libido era esplosa, almeno in età giovanile. Ne fa fede un poema che, a fatica, i critici hanno potuto considerare frutto della penna del poeta dell’amore angelicato, tanto è sconcio, volgare, veramente cochon, poema dal titolo eloquente de Il Fiore.
Allora chi era veramente Beatrice?
Dante è un poeta. Beatrice è la creazione di un poeta. Sebbene possa essere stata una creazione ispirata dall’incontro con una giovane donna fiorentina: Bice Portinari.
Ciò che a noi interessa è che, tramite Beatrice, emerge quello che Lacan chiama «un punto analitico» ben più di quanto Dante ne sapesse, testimoniando a suo modo quello che Lacan ha chiamato «la funzione dell’oggetto (a)», e dell’oggetto (a) che qui ha un nome: «lo sguardo».
«Nella misura in cui è un poeta legato alla tecnica dell’amor cortese, Dante trova, struttura quel luogo eletto in cui si delinea un certo rapporto all’Altro in quanto tale, sospeso a quel limite del campo del godimento che ho chiamato “il limite della brillanza o della bellezza”».
Intervento in italiano al Congresso dell’Association Mondiale de Psychanalyse - Parigi - aprile 2022.
Un controllo pubblico
È un vero dono da parte di Jacques-Alain Miller l’aver acconsentito la pubblicazione di questo Controllo pubblico che Lacan tenne a Ginevra nel 1975. È lo stesso luogo, lo stesso anno e con gli stessi personaggi del suo altro intervento, dal titolo Il sintomo, già pubblicato nel numero 2 de La Psicoanalisi. Lacan vi disegna una panoramica del suo insegnamento, toccando punti precisi, come il suo rapporto con l’opera di Freud, l’evoluzione del suo insegnamento, la messa a punto della passe, e, per quanto riguarda la clinica,la modalità da tenere con il bambino autistico. Lacan tocca anche la psicosomatica, precisando la differenza tra la parola e lo scritto, tra il linguaggio alfabetico e il linguaggio geroglifico, cosa che permette di precisare il sintomo isterico dal fenomeno psicosomatico. La citazione fatta di un passo del Sintomo da parte di una partecipante al Controllo clinico permette non solo di situare il Controllo clinico dal punto di vista temporale rispetto all’intervento di Lacan sul Sintomo, ma ne riprende un punto essenziale, che diremo in questi termini: è possibile uno scioglimento di quella fissazione che è tipica della psicosomatica? Lacan nel Sintomo aveva risposto in questi termini: “Bisogna sempre aver di mira che è per questo verso, cioè per la rivelazione del godimento specifico che egli [il soggetto] ha nella fissazione, che occorre affrontare lo psicosomatico. È in questo che si può sperare che l’inconscio, l’invenzione dell’inconscio, possa servire a qualcosa. È nella misura in cui noi speriamo di dargli il senso di ciò di cui si tratta. Lo psicosomatico è, tutto sommato, nel suo fondamento, qualcosa di profondamente radicato nell’immaginario”. Nel corso del Controllo pubblico Lacan da una parte riafferma questa possibilità, ma d’altra parte invita alla prudenza. Questo invito alla prudenza è a motivo del difficile taglio dell’immaginario in cui si trova la paziente oppure è a causa di una chiara difficoltà a reperirsi da parte dell’analista?
Prendiamo quindi il Controllo pubblico sul versante della modalità degli interventi di Lacan.
Si tratta di un caso presentato dall’analista Nicos Nicolaidis. La paziente è una donna affetta da fenomeni psicosomatici: l’asma fin dalla primissima infanzia – “l’asma non è mai una cosa indifferente”, ricorda Lacan - e la tubercolosi da adulta.
Riprendo solo alcuni aspetti su cui Lacan insiste e, bisogna dirlo, senza che le persone presenti, invece di divagare, cogliessero fino in fondo la valenza dei suoi interventi.
Come per Freud, il tempo dell’infanzia è fondamentale. Per questo, Lacan riporta il caso al tempo dell’infanzia della paziente: interroga il rapporto privilegiato che la paziente ha con la propria madre, chiede del padre e infine sottolinea l’importanza di avere informazioni più complete e dettagliate.
Un secondo punto riguarda la differenza che Lacan fa tra il sogno e le fantasticherie a occhi aperti: solo nel sogno “è l’inconscio che parla”. Il cullarsi da parte della paziente nelle sue fantasticherie potrebbe invece addirittura portare fuori strada l’analista dalla sua posizione corretta rispetto al transfert. È importante il fatto che la paziente consideri che il sogno non sia suo. Infatti è l’inconscio che parla e l’analista avrebbe potuto tirarne fuori qualcosa. “Forse è per il tramite del Monte Bianco che Lei avrebbe potuto far venir fuori qualcosa… là c’è un bianco”, commenta Lacan.
È ammirevole inoltre l’attenzione con cui Lacan registra le parole della paziente, tanto da suggerire all’analista di attenersi a esse perché, affinché i suoi interventi siano decisivi, occorre che siano “giusti”. E questa giustezza obbliga Lacan a precisare lo svarione in cui l’analista rischia di cadere confondendo il fallo con l’organo maschile o con quello della fallocrazia dei movimenti femministi, quando è invece lei, la paziente, che “i genitori la volevano fallo”. E Lacan lascia intendere, lasciando interrotto il suo discorso e senza poterlo sviluppare, che, volendola fallo, i genitori avevano prodotto una bolla tramite une “soffiatura”, bolla che è la paziente stessa, dato che “niente è più psicosomatico di questo… è la funzione del limite come ‘incluso’”.
Certo, sarebbe stato opportuno risvegliare il soggetto, e le possibilità non sono mancate, come poteva avvenite per esempio tramite quel termine “bianco” che “stona” nel contesto. Tuttavia Lacan si attiene alle decisioni prese dall’analista e lo invita alla cautela. Dice: “bisogna far fiducia al[l’analista] controllato: se non ha forzato l’ingresso, vuol dire che aveva i suoi motivi e voleva sentirne di più”.
Questo numero sul controllo – o meglio sulla superaudizione, come l’ha chiamata Lacan – è stata una iniziativa della Segreteria di Roma della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi del Campo freudiano. Diversi interventi provengono dai suoi componenti, a cui sono state aggiunti altri di colleghi dell’École de la Cause freudienne. Alcuni interventi di Jacques-Alain Miller sono stati da me scelti e tratti dal suo Corso l’ Orientation lacanienne.
Lacan l’italiano vol. II
L’invito di Jacques-Alain Miller a mettere in cantiere un numero della rivista su Lacan l’Italiano ha avuto un così ampio riscontro tra i Colleghi che abbiamo dovuto raddoppiarlo. Non ne abbiamo fatto un numero doppio, ma due numeri: questo è il secondo, sebbene nemmeno con questo numero si esaurisca la panoplia di autori, opere, monumenti italiani a cui Lacan fa, qui o là, riferimento o anche solo un rapido accenno.
Apre il corteo di questo numero Galileo Galilei. Per Lacan è fondamentale il suo apporto perché è nel suo nome che viene individuato quel taglio epistemologico che permette l’emergenza della scienza moderna, condizione sine qua non per la nascita della psicoanalisi.
Poeti come Andrea Zanzotto e uomini di teatro come Carmelo Bene sono qui presi nel loro incontro o incontro mancato con Lacan. Incontro che si è avverato con quelle opere di grandi artisti in cui egli ha trovato un riscontro della sua ricerca, opere e autori che lo hanno ispirato e, diciamolo pure, deliziato. Tra questi mettiamo sicuramente il regista forse da lui più apprezzato, Federico Fellini.
Caravaggio, Bernini, Zucchi, Raffaello sono trattati nell’intervista che ha concesso Claudio Strinati. Sì, anche Raffaello, al quale Lacan si riferisce per gli affreschi della Farnesina. Da parte sua Clovis Whitfield, celebre studioso del Caravaggio, in una breve intervista precisa inoltre la differenza tra realtà e reale caravaggeschi.
La lista di artisti trattata è però ben più numerosa. Il lettore si delizierà a ritrovare le opere amate da Lacan, e, a volte, a scoprire alcune sviste, come quella che fa attribuire al Tiziano un quadro del Veronese.
Nel numero della rivista seguono dei lavori sul Seminario XIX. ... o peggio di Lacan realizzati da parte di alcuni professori e docenti dell’Università della Calabria.
La puntualizzazione di J.-A. Miller sul Nostro soggetto supposto sapere e la traduzione di un intervento di Lacan su “France Culture” coronano brillantemente questo numero 70 de La Psicoanalisi.
Lacan l’Italiano
Jacques-Alain Miller, direttore della rivista, ha proposto questo titolo alla redazione, la quale lo ha accolto con entusiasmo. Numerosi Colleghi hanno così accettato la sfida di mettere in rilievo, per il quarantesimo anniversario della morte di Lacan, quel rapporto speciale che lo legava all’Italia. I contributi sono però stati talmente numerosi che non sarebbe stato possibile racchiuderli in un solo volume. A questo primo numero se ne affiancherà quindi un secondo sullo stesso tema. In realtà, se volessimo esaurire tutti i rapporti che Lacan aveva stretto con l’Italia e gli Italiani sarebbero necessari ben più di due numeri della rivista.
Abbiamo così fatto delle scelte. Per esempio, a priori abbiamo rinunciato ad affrontare l’interesse che Lacan nutriva per la questione istituzionale italiana. La storia forse ne soffrirà, ma un simile tema richiederebbe un vasto e preciso studio delle fonti e degli interventi delle persone che vi hanno attivamente partecipato.
Abbiamo optato quindi di presentare un panorama che abbracciasse il più possibile quello che, dell’Italia, Lacan aveva apprezzato, ammirato, amato; quello che era stato per lui fonte di riflessione e oggetto di studio e che eventualmente egli aveva integrato nel suo insegnamento. Si tratta quindi in questi numeri della rivista innanzitutto di testi, di luoghi e di opere d’arte.
In questo primo volume Dante ha tutto il posto che gli compete: per Lacan Dante è il Poeta, con la maiuscola, colui che ha saputo orientare, in quello che possiamo chiamare il nostro mondo, le questioni che riguardano il desiderio, il godimento e l’amore. Come il lettore potrà constatare, a parte il Poeta, Lacan non ha saputo o voluto girarsi verso la letteratura italiana, sebbene gli spunti non sarebbero stati pochi, né in tempi passati né in quelli recenti.
In questa panoramica che riguarda soprattutto le opere d’arte, abbiamo chiesto che ci venisse in aiuto colei che è stata sovente con Lacan in Italia, parlo di Catherine Millot. Ella lo ha accompagnato a Roma e in varie altre città, e con lui ha visitato musei e luoghi d’arte. Nella conversazione che ho avuto la fortuna di avere con lei, Catherine chiarisce anche la modalità che Lacan aveva nel cogliere quei dettagli che poi ha saputo riportare nel suo insegnamento.
Lacan amava vedere e rivedere le stesse opere d’arte. Così si recava ogni volta a contemplare la fontana del Bernini in piazza Navona e a scrutare da vicino i quadri del Caravaggio. Se in questo numero della rivista il lettore troverà testi su altri capolavori, come la Venere del Botticelli o la Madonna ‘con la barba’ del Bramantino, le anamorfosi nascoste del convento dei Minimi, il Velasquez di Palazzo Doria-Pamphili e il San Giorgio con il drago del Carpaccio, troverà, nel prossimo numero, ancora altri testi su artisti e le loro opere.
In questo, come nel prossimo numero, ci saranno inoltre dei contributi su alcuni scienziati italiani a cui Lacan fa riferimento, che essi siano votati alla cosa politica, alla cosa sociale e alla cosa matematica.
Parimenti alcuni colleghi hanno evidenziato dei testi che Lacan ha scritto o pronunciato in Italia. Alcuni di questi sono di grande importanza, come lo è La Terza o quella Nota italiana che è senza dubbio il testo più completo e preciso per quanto riguarda la formazione di uno psicoanalista.
Vita di Lacan di Jacques-Alain Miller di questo numero è la ripresa, con importanti aggiunte apportate dall’Autore, di un testo che avevamo avuto occasione di pubblicare precedentemente.
Questo sessantanovesimo numero de La Psicoanalisi si apre con la definizione di Lacan che “Il rapporto sessuale è un rapporto interintomatico”, vale a dire “c’è un sinthomo lui e c’è un sinthomo lei”.
Il sofferente
Il bambino sofferente è il tema di questo numero. Soprattutto del bambino che è in preda dello spettro autistico. Sappiamo che questa sofferenza è sovente ancora più grande per i loro genitori e i loro familiari.
Psicologi, psicoterapeuti, psicoanalisti hanno affrontato questo doppio se non triplice problema, poiché spesso la sofferenza diventa un retaggio delle istituzioni che se ne occupano, per non dire della comunità civile tutta intera.
È a partire da questo tema che Chiara Mangiarotti ha riunito una serie di testimonianze di un lavoro di psicoanalisi applicata a queste problematiche elaborato in Italia e all’estero, la maggior parte svolto sotto l’egida del Campo freudiano.
Il testo di Jacques-Alain Miller è prezioso per darci le giuste indicazioni in questo settore e più generalmente nel lavoro della pratica clinica per non confondere ciò che ritroviamo come deficit da ciò che è dell’ordine della faglia. Si tratta della questione sollevata da Lacan che non è affatto possibile assimilare un malato che soffre di danni neurologici dal paziente che soffre a causa di un funzionamento/disfunzionamento della struttura psichica. E nonostante il peso e la sofferenza che gravano per questi motivi, Miller ci ricorda come Lacan ci indica che occorre far fronte, trattare e non indietreggiare di fronte alla contingenza del reale, con l’invenzione di ognuno, ma senza nessun fanatismo.
Una lettera di Lacan è il testo inedito, almeno in italiano, che abbiamo voluto presentare ai nostri lettori. La lettera è indirizzata a una religiosa, suor Marie de la Trinité, sua paziente. L’occasione è data da un disguido. Il tono è fermo, il tenore è preciso: la preoccupazione e la modalità in cui si rivolge a questa persona sofferente non gli esime di precisare il lavoro che insieme stanno facendo, ricordando che si tratta di parole che diranno ben più di quello che si sta dicendo, e sottolineando che il compito dell’analista non è una spinta all’agire ma al dire, ma da cui dovrà scaturire quella posizione in cui il soggetto possa ristabilire un’alleanza con la propria pulsione. Nella sua lettera Lacan non esita a mettere avanti il suo desiderio di analista su cui può e deve attestarsi la fiducia della sua paziente. Lettera da leggere e da rileggere.
Karl Marx
“Mi appellerò a Marx, di cui mi è costato grande fatica – ne sono infatti contrariato da molto tempo – non introdurre prima il discorso in un campo dove nondimeno è perfettamente al suo posto. A partire da Marx procederò con un’estensione omologica per cominciare a stabilire oggi il posto in cui dobbiamo situare la funzione essenziale dell’oggetto a” (p. 11).
Così, fin dall’inizio del Seminario XVI, Da un Altro all’altro Lacan introduce Marx. In realtà è un autore che conosce fin dalla sua giovinezza. Studente in psichiatria, andando all’ospedale in metro, leggeva il Capitale. E il suo riferimento a Marx è presente fin dal suo Discorso sulla causalità psichica doveafferma che alcuni autori, come Socrate, Cartesio, Freud e Marx, non possono mai essere superati, a causa della loro passione per la verità (Scritti, p. 187).
Più volte nel suo insegnamento Lacan torna su Marx, a volte per criticarlo, come fa in Funzione campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi quando indica la differenza che separa “la ricerca storica autentica dalle pretese leggi della storia” (Scritti, p. 253) ponendo Marx in serie con il vescovo Bossuet e August Comte. Oppure, quando appoggiandosi su Lenin il quale aveva scritto che la teoria di Marx era onnipotente perché vera, Lacan si interroga, ne La scienza e la verità se la scienza economica ispirata al Capitale porti necessariamente a usarne come potere di rivoluzione, poiché una cosa è la verità come causa e un’altra cosa il potere messo in esercizio (Scritti, 873-4).
Critica che fa seguito a quella ben più articolata dell’Atto di fondazione: “Non è irrilevante che ci si possa meravigliare che il solo nome di Freud, con la speranza di verità che veicola, tenga testa al nome di Marx - sospetto mai dissipato, sebbene sia patente che l’abisso è incolmabile, che nella via dischiusa da Freud potrebbe scorgersi la ragione per cui il marxismo fallisce nel rendere conto di un potere sempre più smisurato e folle sul piano politico” (Altri scritti, p. 237). Qui Lacan distingue in Marx la teoria marxiana e la praxis marxista. La teoria marxiana va verso l’individuazione di elementi di struttura che sono quelli dell’inconscio. Al contrario, la praxis marxista non fa altro che sfociare in una serie di folli passaggi all’atto.
Tuttavia Marx è da Lacan indicato come il precursore dello stadio dello specchio o colui che era riuscito a mostrare il funzionamento tra un significante e l’altro come fa mettendo in rapporto la tela con il vestito o nel rapporto che stabilisce tra il valore d’uso e il valore di scambio. Rispondendo in francese alla Filosofia della miseria di Proudhon, nel suo Miseria della filosofia Marx, al dire di Lacan, riesce a mostrare come la valorizzazione dell’oggetto è al contempo la sua svalutazione, poiché se ne constata lo sradicamento dal campo del puro e semplice bisogno (Sem. VI, p. 122).
Sempre nel Seminario VI troviamo un riferimento marxiano maggiore poiché riguarda l’analisi del carattere feticistico della merce e del denaro.
Un altro punto fermo di Lacan, ripreso più volte, è l’aver attribuito a Karl Marx di essere l’inventore del sintomo, inteso nel senso psicoanalitico del termine. Dato che solo Marx ha individuato quella dimensione del sintomo non già come un errore ma come il ritorno della verità nella faglia di un sapere (Scritti, p. 227).
Il 18 marzo del 1980 in occasione dello scioglimento dell’École freudienne de Paris Lacan, all’improvviso, fece circolare un testo, inedito e importante, che viene subito dopo il testo sulla Dissoluzione, un discorso di tre pagine da cui traggo questo passaggio: “Ho reso omaggio a Marx in quanto è l’inventore del sintomo, eppure Marx è anche il restauratore dell’ordine per il solo fatto che ha dato nuova vita nel proletariato alla cosiddetta dimensione del senso. È bastato questo perché il proletariato egli possa chiamarlo così. La Chiesa se ne è servita, sappiate che il senso religioso nel futuro farà boom in un modo tale che voi non avete affatto idea di quanto questo boom sarà forte, per il semplice motivo che la religione è il luogo originario del senso. È un’evidenza che si impone. E coloro che nella gerarchia sono responsabili stiano, più degli altri, attenti. Io ho provato ad andare contro affinché la psicoanalisi non sia una religione, ma la psicoanalisi tende in modo irresistibile verso la religione, basta che la psicoanalisi si immagini che l’interpretazione operi tramite il senso. Io insegno che la sua spinta è altrove, per la precisione nel significante in quanto tale”.
Nel Seminario XVI qual è il punto centrale che Lacan trova in Marx? Direi che si tratta certamente di ciò che Jacques-Alain Miller dà come titolo alla prima lezione: “Dal plusvalore al plusgodere”. Ma si tratta anche delle conseguenze circa la posizione dello psicoanalista che è chiaramente espressa nel testo inedito di cui sopra.
In questo numero della rivista viene portato a termine il commento di Jacques-Alain Miller sul Seminario Da un Altro all’altro. Seguono due testi su Marx, uno di François Regnault e l’altro di Claudio D’Aurizio. In questo numero vengono riportati i lavori dei diversi gruppi di studio della Sezione clinica di Roma dello scorso anno accademico.
Thomas Corey, l’artista che già ci aveva fatto omaggio del profilo di James Joyce riprodotto in un numero precedente della rivista, ha voluto ripetere il suo gesto con questa copertina proponendoci la sua versione di Karl Marx.
Sulla conferenza di Lacan al Grande Oriente di Francia
Lacan, il 25 aprile 1969, tenne una conferenza al Grande Oriente di Francia. E di che parla?
Credo che l’assemblea dei Frammassoni francesi sia rimasta di stucco come qualche anno prima l’assemblea dei Cattolici riuniti a Bruxelles: Lacan parla della sua versione dell’”ama il prossimo tuo come te stesso”, come conclusione - conclusione anche politica - dell’esperienza analitica.
Ai Frammassoni dice: “Egli [il soggetto] si soddisfa di questo vuoto [prodotto dall’operazione analitica] dove può amare il prossimo suo, poiché è là che trova questo vuoto come se stesso, e che può amarlo solo così”.
Ai Cattolici aveva detto: “Sono almeno riuscito a far passare nella vostra mente le catene di quella topologia che pone al centro di ciascuno di noi quel luogo beante da cui il niente ci interroga sul nostro sesso e la nostra esistenza? È questo il luogo dove dobbiamo amare il prossimo come noi stessi, poiché in lui questo vuoto è lo stesso”.
A questi due interlocutori, l’assemblea dei Frammassoni e quella dei Cattolici, occorre aggiungerne un terzo, a questo riguardo non citato ma implicito nel discorso di Lacan: Freud.
Freud considerava il comandamento dell’amore “la più grandiosa dichiarazione” del cristianesimo - dimenticando di menzionare che è innanzitutto un passo dell’Antico Testamento. Per Freud si tratta di un comandamento assurdo, poiché equivale ad amare il proprio nemico, lo straniero, colui che mi è estraneo.
Eppure è stato proprio Freud a orientare Lacan. Tramite das Ding Freud fornisce a Lacan il modo di cogliere l’ extime, quell’estraneo che alloggia nel più intimo del soggetto. L’elaborazione effettuata da Lacan sull’oggetto a permette di cogliere sia ciò che in quel luogo vi funzioni da tappo, sia ciò che il tappo ricopre: una faglia beante di cui nulla può essere detto.
Il rapporto di soddisfazione del parlessere con questo vuoto segna lo spostamento dalla posizione analizzante all’analista, proprio perché a causa di questo vuoto appare il desiderio in una versione inedita e che Lacan chiamerà desiderio dell’analista.
Il desiderio dell’analista è il motore della cura. Ma non potrebbe essere il motore di una sovversione sociale, anche nel suo aspetto politico?
Per farlo, occorre che lo psicoanalista dia testimonianza del suo essere stato analizzante. E Lacan, con pazienza, inizia il suo intervento enumerando i passaggi che, in logica, portano lo psicoanalizzante alla posizione che permette di occupare la funzione di psicoanalista.
Innanzitutto, rispetto all’analizzante, lo psicoanalista non deve puntare a ottenere un qualche successo. Deve invece mettere a nudo nell’analizzante quel desiderio di cui l’inconscio fornisce la traccia. Ma in che modo allora il desiderio inconscio permette al soggetto di realizzarsi? Forse quando il soggetto si compiace in un oggetto desiderato, vale a dire investito dalla libido? Una qualunque psicoterapia è all’altezza di ottenere questo risultato. Al contrario, in psicoanalisi, il risultato lo si ottiene in seguito alla deflazione del desiderio, ossia quando l’oggetto del desiderio è disinvestito dalla libido. A questo punto il risultato è il resto di un’operazione di divisione in cui il soggetto si realizza solo in perdita. Perdita preziosa, in realtà, se gli permette di restituire questo resto all’Altro da cui proviene. A questo punto il soggetto non ha più bisogno della domanda dell’Altro per sostenersi nel desiderio, e finalmente per scrollarsi di dosso il desiderio dell’Altro, poiché ormai sa che il suo desiderio inconscio altro non è che ciò che si è formato a partire dalla zona che fa da barriera al godimento.
È questo vuoto a dare accesso alla soddisfazione e a permettere di riconoscere e di amare il prossimo poiché anche lui è fatto di quel medesimo vuoto.
Come nella Chiesa, anche nella psicoanalisi gli psicoanalisti si comportano come i cristiani, “i quali hanno orrore di quanto è stato loro rivelato”.
Il riferimento alla Chiesa permette a Lacan di mettere le cose in chiaro rispetto al desiderio di Freud. Egli aveva pensato il suo movimento come una Chiesa. E se non si vuole che la psicoanalisi sia vedova, come lo è diventata la Chiesa, occorre che la psicoanalisi si muova in un altro regime. Non già quello della doppia verità, dove una verità può servire da alibi a un’altra e viceversa, ma il regime dove ci porta la struttura dell’inconscio: quello in cui la verità che si confina nell’inconscio è condizionata dalle esigenze del sapere.
Forse i Fratelli Massoni si saranno compiaciuti dell’invettiva di Lacan sulla Chiesa. Ma non si aspettavano di diventare essi stessi il nuovo bersaglio. Se si erano sbarazzati del Dio cristiano, e se perfino erano ormai esentati dal dover credere nel Dio dei filosofi, si sbagliavano di grosso se pensavano che vada meglio per chi crede di non credere. Anche i liberi-pensatori credono che ci sia un senso a tutto ciò che si dice e gli intellettuali-di-sinistra che ci siano degli ideali capaci di vegliare al progresso del bene.
Del resto la scienza stessa funziona supponendo un soggetto che sappia far funzionare l’universo, cosa che permette a Lacan di dire che esiste una teologia della scienza. E che dire allora del soggetto-supposto-sapere, fulcro del funzionamento del transfert? Certo, anche la psicoanalisi potrebbe essere nient’altro che una psicoteologia se il soggetto-supposto-sapere fosse il perno di un transfert la cui funzione sarebbe quella di effettuare il ritorno del senso. Si può fare a meno del soggetto-supposto-sapere. Se ne può fare a meno a condizione di servirsene.
Come comprendere allora la caduta di senso? Addirittura lo stesso insegnamento di Lacan può mascherare il fatto che il pensiero è solo censura e che impedisce l’accesso al sapere inconscio. Questo avviene perché le parole comuni che Lacan ha usato sono utilizzate per un ennesimo alibi che egli chiama lacanesimo. Anche qui si tratta di parole che tutti usano ma che in fondo servono a mascherare la porta di accesso al sapere inconscio.
Lacan equivoca qui tra pensiero (pensée) e censura (censure), tra senso (sens) e censo (cens, in francese omofono di sens). Lacan qui riprende quello che aveva detto nel suo Da un Altro all’altro nel corso della lezione del 23 aprile, dove si chiariscono i termini dell’invettiva contro i saggi e dell’incitamento rivolto ai giovani. La lezione seguente, quella del 30 aprile, rivela in modo inequivocabile la sua posizione: “Un vero ateismo, l’unico a meritare questo nome, è quello che risulterebbe dalla messa in discussione del soggetto-supposto-sapere”.
In questo numero della rivista La Psicoanalisi il lettore troverà la seconda parte del commento di Jacques-Alain Miller sul Seminario Da un Altro all’altro di Lacan, e tanti altri testi.
Ruggero Savinio ha voluto farci dono di un suo Pascal, personaggio centrale del Seminario XVI di Lacan, per la copertina di questo numero, appositamente dipinto per La Psicoanalisi.
A proposito di un articolo di Lacan per “Le Monde”
Il 3 febbraio 1969 Lacan invia a un quotidiano un breve scritto. Nonostante fosse stato richiesto, questo articolo non fu pubblicato, come spiega Lacan stesso nel corso del Seminario dell’anno seguente:
“Si dà il caso che io abbia scritto un breve articolo sulla riforma universitaria, che mi era stato espressamente richiesto da un giornale, il solo che abbia una reputazione di equilibrio e di onestà, che si chiama “Le Monde”. Si era insistito molto perché scrivessi questa paginetta a proposito della riforma, della riorganizzazione della psichiatria. Ora, malgrado questa insistenza, è abbastanza sorprendente che questo breve articolo, che un giorno forse mi deciderò a pubblicare, non sia affatto passato.
In esso parlo di una riforma nel suo buco. Appunto, con questo buco vorticoso manifestamente avrebbero dovuto arrangiarsi diverse misure concernenti l’Università. E ahimé, rapportandosi correttamente ai termini di certi discorsi fondamentali, bisognerebbe avere certi scrupoli, diciamo, per agire, bisognerebbe pensarci due volte prima di precipitarsi ad approfittare delle linee che si aprono. È una responsabilità veicolare la carogna in quei corridoi.
Ecco a che cosa le nostre osservazioni di oggi, che non sono correnti, che non sono comuni, dovranno essere articolate”.
Lacan prosegue la lezione del Seminario di quell’anno su quanto egli chiama un “enigma della lingua francese”, ossia sull’agente di un discorso, poiché “l’agente non è affatto necessariamente celui che fa, ma colui che è fatto agire”. E si tratta proprio di questo.
L’articolo puntalizza la posizione di Lacan rispetto a una problematica: la riforma universitaria. Per illustrarla egli prende come esempio il dibattito in corso, all’epoca in Francia, sui rapporti tra neurologia e psichiatria. Lacan ricorda che coloro che volevano in quel momento separarle erano stati proprio gli stessi che precedentemente si erano battuti per unirle. In realtà, nei due casi, Lacan non ci vede nient’altro se non manovre per tenere stretto il potere. Insomma, manovre da baroni.
Nel dibattito Lacan interviene a partire da un’angolazione diversa: che la si pensi come si vuole, i laboratori farmaceutici sono loro ad aver conquistato il campo e ormai la chimica la fa da padrone. Inoltre la psichiatria, diventata “sociatria”, si troverà a essere invischiata nella gestione di quegli effetti segregativi che provengono dal discorso scientifico. Comunque, nonostante il cervello sia un “incrocio” anche per la psichiatria, tuttavia “nessuna formazione è più inadatta di quella del neurologo per preparare a cogliere il fatto psichiatrico”.
Lacan constata che l’Università non è stata all’altezza del compito che essa ha rispetto al sapere. E ora, ancor più, con la riforma, l’Università, istituendo le cosiddette “unità di valore” a cui gli studenti vengono invitati per non dire costretti a identificarsi, in realtà non fa altro che piegarsi alla società dei consumi, dove il valore del sapere è sottoposto a quello che Lacan chiama la sovversione prodotta dal mercato. Ma a questo punto ciò che è svalutato è proprio il sapere, poiché - ricorda Lacan con un tono beffardo - “il sapere non si acquisisce con il lavoro”. Basta chiederlo a una madre di famiglia, la quale lo sa perfettamente.
A questo punto si rivela la vera funzione dell’Università. Funzione che era rimasta nascosta finché l’Università non faceva altro che produrre dei professori. Ma ora non è più così, poiché il discorso dell’Università chiede ai lavoratori universitari, ossia agli studenti, di lavorare per produrre il soggetto della scienza. E di produrlo sulla propria “pelle”.
“Qual è dunque la quotazione di valore inerente al sapere?”, si domanda Lacan. “È a questo punto che sopravviene la funzione che si articola unicamente a partire dalla teoria psicoanalitica, quella che ho annodato con gli effetti del sapere con cui si inaugura il soggetto, come effetto di perdita, che un taglio nel corpo viene a significare – e questo sotto la denominazione algebrica dell’oggetto (a). Da leggere: piccolo a”.
Da qui Lacan passa alla critica che egli fa alla filosofia, non essendo stata all’altezza di situare “la causa o, piuttosto, l’acausa del desiderio” e riprendendo quello che aveva sviluppato nel Seminario di quell’anno, Di un Altro all’altro, accennando alla sua prima lezione, dal titolo “Dal plusvalore al plusgodere”.
Tuttavia, al di là di passaggi da riprendere in dettaglio, che cosa Lacan propone?
A mio parere, in soldoni, propone il cammino di un’esperienza analitica. Ma quale? Ancora una volta Lacan, in modo sarcastico, dice che di solito “basta un ideale pescato chissà dove” e la messa in moto di “un Altro supposto sapere”. Insomma, è la pietanza che solitamente “l’analista osa offrire come transfert”. Mi sembra chiaro che da simili analisti, “iloti parcheggiati”, c’è ben poco da attendersi. Alla quieta via analitica Lacan oppone “la sola che esige un lavoro”, quella della faccia tosta che si mette a produrre una verità.
In che consiste questo lavoro? “È il lavoro che occorre per fare l’identificazione dell’uomo”, qui inteso come maschio e femmina. Poi, “a proposito del godimento incontrato della donna da cui è nato, per disfarlo”. E tutto ciò per ritrovare “il buco, vuoto ma finalmente vivo, della castrazione, da cui la donna sorge veridica”.
Una nota a proposito dell’aggettivo con cui Lacan fregia il buco: vivide. A mia conoscenza, il termine non esiste in francese. Può darsi che Lacan l’abbia tratto dal vividus latino, che vuol dire pieno di vita. Noi l’abbiamo letto come un mot-valise, ossia un termine composto dal prefisso vivi- e dal termine vide, vuoto: “vuoto ma finalmente vivo”.
Lacan ci ricorda qui che è questo il cammino tracciato dalla nevrosi per il compito assegnato allo psicoanalista. Compito che lo psicoanalista potrà svolgere solo se è nel disessere, vale a dire che il suo desiderio è libidinalmente svuotato e punta in modo risoluto a non essere nient’altro “se non desiderio di sapere”.
Ecco che cosa Lacan propone a chiunque voglia cimentarsi in qualunque insegnamento che formi alla scienza. Ecco che cosa propone ai giovani, i quali, anche se fossero pronti a nuove sommosse, saranno sommersi a profusione da quella miriade di oggetti, oggetti inutili, prodotti dal capitalismo.
Nella sua lezione del Seminario del 12 febbraio 1969 Lacan riprende un passo del suo articolo e si dice turbato “quando sento delle brave persone enunciare dopo il subbuglio di Maggio: Mai più come prima. Io penso che, al punto in cui ci troviamo, è più che mai come prima”. Da qui ne deduce che possiamo prevedere che l’orizzonte della nostra epoca sarà “il campo di concentramento generalizzato”. Riprendendo l’inizio del suo testo, portando l’esempio di quanto ci insegna l’associazione libera, Lacan ci ricorda che non impariamo nulla dal passato e quello che ci sembra contingente nel presente è già presente come necessario solo volgendoci al futuro. L’articolo termina così con un’affermazione di alto tenore politico, molto attuale: “Il vincitore ignoto di domani, fin da oggi è lui che comanda”.
Lacan a Lovanio
13 ottobre 1972, Università Cattolica di Lovanio. La Grande Rotonde, l’Aula Magna dell’Alma Mater, era gremita. Per l’occasione Lacan dà prova di una grande maestria, nonostante un imprevisto che avrebbe potuto turbare lo svolgimento dell’incontro e che invece Lacan seppe utilizzare a fini strettamente analitici. Senza dubbio molti lettori hanno visto questa conferenza poiché venne ripresa dalla televisione belga, il cui filmato finirà poi su Internet.
All’epoca Lacan era venuto più volte in Belgio. A Lovanio, in primis, dove l’Università si era fatta apprezzare, tra l’altro, per due importanti indirizzi, uno in teologia, essendo stata la sede di quel rinnovamento che porta il nome di neotomismo, l’altro in filosofia, dove la fenomenologia aveva un campo fertile dopo che Herman van Breda era riuscito a portarvi dalla Germania gli scritti di Husserl, salvandoli così dalla distruzione della guerra.
Certamente per Lacan c’era un altro motivo per venire in Belgio, per lui molto più impellente. A partire dalla sua Proposta dove aveva instaurato la passe, Lacan si era trovato in Francia a fronteggiare una sorta di fronda, capeggiata da Piera Aulagnier, Valabrega e Perrier, che avevano costituito nel 1969 il cosiddetto Quatrième groupe. L’Ecole belge de psychanalyse, pur essendo autonoma, si trovava in quel momento in una specie di via di mezzo tra l’adesione alle tesi del nuovo gruppo psicoanalitico e la fedeltà alle tesi promosse da Lacan nell’Ecole freudienne. Le cose si chiariranno solo qualche anno dopo al momento della dissolution dell’Ecole freudienne. Solo un numero ristretto di membri dell’Ecole belge seguirà la strada indicata da Lacan per approdare all’Ecole de la Cause freudienne, la nuova Scuola istituita da Jacques-Alain Miller e adottata da Lacan.
Il giorno del suo intervento alla Grande Rotonde, io mi trovavo, per utilizzare l’espressione di Lacan, “in periferia”, ossia sui gradini più alti dell’Aula Magna, e solo nell’après-coup mi resi conto dello sforzo che Lacan aveva dovuto fare per cercare di mantenere vivo, in Belgio, il suo insegnamento. L’incontro di cui stiamo parlando è forse, di tutti questi momenti, il più importante.
Come ricorda egli stesso, Lacan non aveva preparato il suo intervento. Prima della conferenza si era intrattenuto per diverse ore con una trentina di noi giovani e aveva cercato di comprendere in questo incontro quale sarebbe stato il suo uditorio.
Come possiamo notare in situazioni simili, anche in questo caso Lacan inizia presentando il suo insegnamento in modo piuttosto semplice e in uno stile colloquiale. Egli non si accinge a presentare un compendio, ma, direi, illustra i punti salienti del suo insegnamento in funzione del suo uditorio. Anche in questa occasione Lacan ricorre a questa sua modalità. Dopo aver nominato i suoi ospiti, ambedue membri anche della sua Scuola, il professor Jacques Schotte, illustre fenomenologo, e il professor Antoon Vergote, punto di riferimento della psicologia religiosa, Lacan parte dalla comunicazione. La comunicazione fa ridere, dice. Proprio come quella comunicazione di cui parla altrove, a partire dal grafo, tra la madre e il bambino che ride. Cosa che gli permette di andare al di là.
Dopo un breve accenno ai suoi anni di insegnamento, Lacan precisa alcuni aspetti che chiamerei di politica psicoanalitica.
Meraviglia una sua prima affermazione: se lo si accusa di fare una psicoanalisi intellettualista il motivo risiederebbe nell’essere andato via dalla cosiddetta società psicoanalitica internazionale. E qui, egli rivela un pezzo di storia sconosciuta ai più: non era stata sua intenzione di andarsene, ma si era trovato a seguire un movimento in cui una persona - sicuramente, senza nominarlo, fa riferimento a Daniel Lagache, analista e universitario, e per lungo tempo suo grande amico - senza troppa considerazione aveva optato per dare le dimissioni dall’Internazionale freudiana, sebbene qualche tempo dopo, in fretta e furia vi avesse fatto ritorno. Per contro non vi fece ritorno Lacan, il quale, nel suo intervento di Lovanio almeno, trova parole amichevoli per qualcuno che, altrove, dice di aver gaché, danneggiato, la psicoanalisi.
Dopo questo richiamo di natura politica, sicuramente indirizzato ai suoi ospiti, Lacan riprende la tematica della psicoanalisi. La psicoanalisi è un discorso e, in quanto tale, è uno dei legami sociali, come egli aveva ampiamente illustrato qualche anno prima nel Seminario XVII, Il rovescio della psicoanalisi. È un pleonasmo dire che l’essere umano è un essere parlante, poiché è per il fatto di parlare che egli si crede di essere. Inoltre, proprio perché abita il linguaggio, anche quando è solo, continua a parlare. Insomma, non è mai solo, anche quando vive in solitario. E non è che egli pensa con il linguaggio, ma è il linguaggio che pensa con il suo corpo di vivente, contrariamente a quanto affermava Aristotele per il quale si pensa con la propria anima. E se ci sono altri animali sociali non lo sono a causa del linguaggio ma a causa di qualcosa che chiamiamo istinto.
Riprendendo i suoi quattro discorsi, Lacan indica il cambiamento che vi si sono operati. Si parte dal discorso del dominus, il quale ha un potere ma non ha bisogno di sapere nulla. Quando invece il sapere ha avuto accesso al potere, allora è avvenuta una vera e propria rivoluzione. Lacan si dilunga su questo discorso poiché è quello dominante in tutti coloro che lo stavano ascoltando e che, volenti o nolenti, si aspettano qualcosa dal potere che viene dal fatto che il sapere occupa il posto dominante. Il sapere che si è dato il potere è affare del magister, del pedagogo, del pedante, o dello schiavo antico o del servo hegeliano. Ora costoro abitano le università, la magistratura, e altrove, egli dice, la burocrazia.
Ma la cosa non si è fermata lì. E Lacan ricorda che almeno una persona, ossia lui stesso, ci aveva messo uno zampino perché la cosa non si fermasse lì ma continuasse a girare, dato che ci sono dei piccoli segni che la cosa non continua più a funzionare tanto bene. Come si vede egli punta a introdurre il discorso analitico. E lo introduce non già a partire dal sapere, ma a partire dalla vita e dalla morte. Non già però dalla vita e dalla morte come semplici concetti, poiché concerne qualcosa che gode o che soffre, e che ha un corpo.
Tutto questo sembrerebbe bastare, ma non basta. Perché bisogna fare ritorno al sapere, a quel sapere che ci governa e che resta completamente in sospeso. Sapere che non è scienza, sebbene sia un sapere che si trasmette tramite la parola. Questo sapere provoca verso colui che è supposto esserne il riferimento un vero amore, e non già un amore di seconda mano. Eppure anche costui, o meglio costoro, ossia gli psicoanalisti, possono credere di non saperne niente, ma qui si sbagliano dato che ne sanno qualcosa, solo che, proprio come per l’inconscio di cui è l’esatta definizione, non sanno che lo sanno.
In gioco, si tratta quindi del sapere, ma un sapere diverso da quello hegeliano che è senza faglia e che serve a giocare a rimpiattino tra il signore e il servo.
A questo punto, come è avvenuto all’inizio della psicoanalisi, un altro personaggio entra in scena. L’isterica. È lei a indicare, di nuovo, la direzione. Come a Freud aveva indicato la via del senso. Ora l’isterica indica un’altra via, guidata com’è dal filo d’oro del godimento. È decifrando questa via che Lacan, Freud alla mano, arriva a forgiare l’oggetto a.
Le successive riflessioni di Lacan precisano in che cosa ogni comportamento umano è una difesa contro il godimento, il quale, una volta desertificato il corpo, rimane comunque ancorato ai suoi bordi.
Ora, è proprio il godimento come supporto che spinge Freud a elaborare la teoria dell’energia sul modo della fisica moderna. Percorso che Lacan non disdegna affatto, sebbene in questo suo intervento non utilizzi il termine che aveva pronunciato, poche volte a dire il vero, qualche anno prima: entropia. Non potrebbe essere l’entropia una tappa ineludibile nella demitizzazione della psicoanalisi?
Dopo la ripresa che Lacan fa dell’Ich freudiano e della Spaltung e le sue riflessioni sul linguaggio, la conferenza di Lacan è interrotta platealmente da un giovane.
Lacan non si scompone e si mette a dialogare con lui. L’uditorio si trova, così, senza preavviso, in uno scenario diverso, che Lacan orienta in modo tale che gli astanti sembrano trovarsi in una delle sue presentazioni di malati. Il rispetto di Lacan verso il giovane è assoluto. Puntualizza tuttavia il suo discorso facendo emergere i punti salienti.
E da lì impartisce una lezione di clinica psicoanalitica rispetto alle diverse strutture e constata che in fondo si tratta di giostrare tra due modalità di delirio, una che punta alla Gesuralemme celeste e l’altra alla realizzazione del discorso della scienza, cosa di cui, Lacan non fa, qui come altrove, che indicarne, al di là dei pregi, i gravi pericoli che esso comporta.
Nello status quaestionis di questo disagio della civiltà, che andrà sempre più accentuandosi, Lacan ricorda tuttavia che si è inaugurato qualcosa che si definisce tramite la funzione dell’analista. ”Un analista è colui che si può permettere, che osa permettersi, di mettersi rispetto al soggetto – al soggetto effettivamente più o meno impazzito da quella straordinaria condizione umana di abitare il linguaggio – in posizione di causa del desiderio”.
Dante, eretico
Soleva Roma, che ‘l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
col pastorale, e l’un con l’altro insieme
per viva forza mal convien che vada
Dante, tramite Marco Lombardo, illustra la sua visione del mondo nel XVI canto del Purgatorio. Ci sono due soli: il Papa e l’Imperatore.
Come sfondo, c’è un passo del Convivio (IV, v, 3-4):Dio invia sulla terra suo Figlio per riscattare gli uomini dal peccato originale. Ma sia il Cielo (ossia la sfera spirituale) sia la Terra (ossia la sfera temporale) devono essere nella disposizione adeguata. E a tale scopo occorre il governo imperiale per le cose terrene e il governo papale per le cose spirituali.
Su questo punto Dante è eretico. Eretico nel duplice senso del termine.
E’ eretico in quanto fa una scelta, scelta che è contraria alla sua appartenenza politica.
Appartenenza politica che è ampiamente conosciuta da quando eravamo sui banchi di scuola, almeno per il fatto che lui, guelfo, fu bollato di essere un “ghibellin fuggiasco”, e quindi nemico – e non a torto - del Papa e degli esecutori della sua condanna all’esilio (condanna messa in atto dai famosi frati godenti fummo e bolognesi”).
Dante è quindi fautore della visione ghibellina del mondo, rappresentata dai due soli, e non già fautore della visione guelfa, la quale metaforizza il potere papale nel sole e quello dell’imperatore nella luna, luna che non fa altro che emanare una luce riflessa.
Ma Dante è eretico anche perché si oppone frontalmente a san Tommaso d’Aquino.
Noi sappiamo che la Divina Commedia è, tra l’altro, una trasposizione in poesia della Summa theologica di san Tommaso, e in quest’ottica Beatrice è l’incarnazione della teologia stessa. Dante segue pedissequamente l’Aquinate, ma se ne discosta rispetto a un punto preciso: alla politica.
Prendiamo un autore dantesco, amato da Lacan.
Questo autore non è René Guénon, prolifico divulgatore di tanti sproloqui, tra cui uno sull’esoterismo di Dante. Lacan considerava Guénon un perfetto imbecille.
L’autore dantesco amato da Lacan è Etienne Gilson.
Gilson mette in parallelo un passo del De Regimini principum ( I, 14) di san Tommaso e un passo del De Monarchia (III, 3) di Dante.
Scrive san Tommaso che al Romano Pontefice, vicario di Cristo e successore di Pietro “omnes reges populi christiani oportet esse subditos, sicut ipsi Domino nostro Jesu Christo” [al Romano Pontefice tutti i re del popolo cristiano devono essere sudditi, come lo si è a Gesù Cristo].
Scrive invece Dante che al Romano Pontefice, vicario di Cristo e successore di Pietro “non quidquid Christo sed quidquid Petro debemus” [al Romano Pontefice non dobbiamo ciò che è dovuto a Cristo, ma solo ciò che è dovuto a Pietro].
Gilson nota: “Tutto il problema è condensato in queste due frasi, di cui colpisce l’opposizione quasi letterale […] Sono due frasi in flagrante contraddizione”. Ambedue riconoscono la supremazia temporale di Cristo, ma san Tommaso afferma che il Cristo ha trasmesso la sua duplice regalità a Pietro e ai suoi successori. Dante, al contrario, dice che se il Cristo, in quanto Dio, ha posseduto la sovranità temporale, di questa sovranità tuttavia “non ha mai fatto uso”. E Pietro e i suoi successori non devono farne uso. Non è competenza di Pietro e dei suoi successori l’uso del potere temporale.
Tra Dante e san Tommaso le posizioni in politica sono inconciliabili.
La visione politica di san Tommaso è teocratica, non diversa da quella che l’Islam ha avuto e ha ancora. La visione politica di Dante è juxta modum moderna. Non è atea. E’ laica, ossia la sfera spirituale è altra cosa rispetto alla sfera temporale.
Nei secoli la lotta tra le due sfere ha alterne vicende. Nel VI secolo L’Imperatore Giustiniano tratta Papa Pelagio come un suo portaborse. Quattro secoli dopo, nella guerra Papato/Impero per le investiture, Gregorio VII aspetta che l’Imperatore Enrico IV venga a Canossa. Napoleone, nonostante Dio si sia appannato nel frattempo, non tratta meglio Pio VI di come l’Imperatore di Costantinopoli avesse trattato il Papa romano.
La separazione netta tra potere temporale e potere spirituale avviene solo agli inizi del 1600 a Venezia, città eretica per eccellenza, a proposito del potere giudiziario. Il teologo servita Paolo Sarpi si fa paladino della Serenissima contro il potere di Papa Paolo V per una questione di delitti commessi da religiosi. Al contrario, al giorno d’oggi, Papa Bergoglio licenzia il Cardinale Pell perché si difenda in un tribunale australiano da un’accusa di pedofilia.
Eppure un secolo fa, nel 1921, ossia dopo quella Grande Guerra che segna un cambiamento epocale nelle ideologie e negli imperi, Benedetto XV, nell’enciclica per il sesto centenario della morte di Dante, dopo averlo osannato a lungo, dice in sordina il suo rammarico perché Dante afferma che la dignità del potere temporale proviene direttamente da Dio.
Sulla base che sia san Tommaso sia Dante sostengono le loro affermazioni sulla base che Dio Padre non è al momento ancora evaporato, l’eretico Dante si dimostra più lungimirante della posizione del suo santo antagonista.
Se mettiamo in parallelo la politica di Dante con quella di Lacan, che cosa troviamo ? Tenendo conto che il quadro di riferimento è del tutto mutato poiché siamo all’epoca dell’Altro non esiste, concordiamo con Dante che il potere religioso è di un altro ordine rispetto al potere politico, al quale non deve pretendere di sostituirsi. Il politico si riferisce al discorso del significante padrone, e si svolge a livello del godimento fallico. Diversamente è, o dovrebbe essere, il discorso religioso, che è segnato dal non-tutto e che di conseguenza dovrebbe rifuggire da ogni forma di padronanza.
Intervento al Convegno della SLPcf - Torino, luglio 2017.
Letteratura e Letterarietà
Questo numero de La Psicoanalisi ha sulla copertina una foto di Judith Miller, figlia di Jacques Lacan.
Judith ci ha lasciati nella notte tra il 6 e il 7 dicembre scorso. Abbiamo pensato di ricordarla dedicandole questo numero. Il lettore vi troverà un suo testo dal titolo Scientismo, rovina della scienza. Eric Laurent, che riprende il testo, mostra in che modo Judith sia stata capace di rivelarsi una valida guida alla lettura di Lacan.
Inoltre questo numero riporta la giornata di studio tenuta al Centre Saint Louis dell’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede. La giornata, organizzata dall’Università di Palermo in collaborazione con l’Istituto freudiano, ha avuto come titolo Letteratura e letterarietà in Jacques Lacan. Il lettore troverà interventi su Joyce, Althusser e Derrida, Raymond Queneau, Antonin Artaud, André Gide, perfino un intervento sulla Dolce Vita di Fellini, inoltre un testo sull’origine della lirica europea e un altro sul pronome ’Tu’. L’articolo di J.-A. Miller ripreso dal volume L’orgeuil de la littérature (Genève) pubblicato in onore di Roger Dragonetti completa questi testi riuniti come in un florilegio.
Veniamo ora al brevissimo testo di Lacan del 22 ottobre 1978.
Jacques-Alain Miller spiega, nel corso 2007-2008 del suo Orientamento lacaniano, l’origine di questo breve scritto. Egli aveva chiesto a diverse persone una testimonianza di quanto era stato fatto nel Dipartimento di Psicoanalisi dell’Università di Parigi VIII. Naturalmente l’aveva chiesto anche a Lacan. Lacan aveva preso un foglio e aveva vergato qualche breve frase, lasciando poi che J.-A. Miller completasse la parte dove vengono elencati gli apporti sorti in quattro anni di insegnamento.
Lacan parte dai quattro discorsi. Fa riferimento dunque al discorso del padrone, al discorso dell’universitario, al discorso dell’isterica e al discorso dell’analista. Ora, solo quest’ultimo, afferma, non si prende per la verità. Per questo motivo sarebbe opportuno che fosse lui a dominare. Purtroppo il discorso dell’analista esclude, di per sé, ogni dominio e potere. Perché? Per il fatto che il discorso dell’analista non si appoggia sul significante. Quindi “non insegna niente. Non ha niente di universale: proprio per questo non è materia di insegnamento”.
Allora, “come fare a insegnare quello che non si insegna?”, si domanda Lacan. “Ecco dove Freud ha mosso i primi passi”, continua. E conclude: Freud “ha considerato che tutto è sogno e che tutti (se è consentita una tale espressione), tutti sono folli, ossia deliranti”.
L’universale affonda le sue radici nel sapere. Ma il sapere sa distinguersi forse dalla credenza? Chi è veramente bravo da riuscire a separare il sapere dalla credenza? Ora, della credenza, almeno di quella, tutti ne sono imbevuti. Proprio come tutti i folli, appunto.
Tutto ciò è dimostrato nel primo passo che, rispetto all’universale, fa l'insegnamento. Ma il secondo passo, ossia quello fatto dall’insegnamento rispetto al particolare, occorre dimostrarlo, dice Lacan. È quello che egli fa dopo aver modulato, per non cadere in contraddizione, il suo ’tutti’ nel suo inciso messo tra parentesi, ricorda J.-A. Miller.
Il particolare, dunque. Ossia, in termini analitici, l’oggetto. Lacan dice che “qualunque oggetto è buono [sebbene] si presenti sempre male”. Certo, dopo il bombardamento che il capitalismo ci propina tramite i media, non ci troviamo forse con una profusione di oggetti simil-oggetto a, come si direbbe simil-pelle?
A dire il vero, capitalismo o no, basterebbe il fantasma per constatare che vediamo il mondo attraverso un prisma, il quale ce lo fa vedere - strutturalmente - in modo deformato. Così anche nel particolare ci troviamo a fare i conti con la credenza - delirante, anche qui.
Non c’è dunque solo la credenza delirante per gli ideali, per quanto altisonanti essi siano. C’è anche la credenza delirante per il plusgodere. Credenza delirante che ha gamme cangianti, che vanno dagli oggetti futili del capitalismo all’oggetto della sublimazione, all’oggetto degno di amore (o di odio), ma anche a quell’oggetto che uno psicoanalizzante scova nel suo cammino: sinthomo, lo chiama Lacan.
Joyce, il Maestro
“Un cattolico veramente formato nel cattolicesimo è inanalizzabile”. Lacan è perentorio. Quest’affermazione Lacan la fece durante la discussione che seguì la conferenza tenuta da Jacques Aubert il 9 marzo 1976. Il lettore troverà la conferenza in questo numero della rivista sotto il titolo “Su James Joyce: gallerie per un ritratto”. La conferenza e la discussione furono pubblicate su Analytica, supplemento al n. 9 di Ornicar?. Il titolo dell’intervento di Lacan è dato dalla redazione della nostra rivista ma è tratto da un interrogativo che Lacan si pone nel corso della discussione: “Qual è la funzione dell’ego nella formazione cattolica?”.
Dopo aver precisato che nei testi di Joyce viene messo in atto la struttura del sintomo, contrariamente a quanto avviene nei testi di Sade dove il suo fantasma viene a fare da schermo, Jacques-Alain Miller lancia la discussione chiedendo quale sia la funzione di Stephen Dedalus nell’economia soggettiva di Joyce.
Lacan interviene affermando che il cattolico è inanalizzabile, ma dandone anche il motivo: il vero cattolico è inanalizzabile perché è formato da un sistema che ha il suo perno in un ego che viene a raddoppiare nel soggetto l’ ego comune. Questo nuovo ego, suggerisce Jacques Aubert, è fabbricato sul modello del De imitatione Christi. Diremmo piuttosto, leggendo Dedalus, che almeno per Joyce è fabbricato sulla base dei novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso. Comunque, in un cattolico già formato, la psicoanalisi scivola via come acqua fresca. Ma essendo fabbricato, questo nuovo ego è, dice Lacan, “staccabile”. Forse risiede qui la possibilità che l’analisi abbia un suo peso per l’orecchio di un cattolico. Ma perché avvenga occorre che qualcosa si evapori perché l’analisi possa incidere. Arriverà allora un Papa che se ne accorgerà, prospetta Lacan, e inviterà tutti a farsi psicoanalizzare. Si potrebbe così andare al di là di quel cattolicesimo timido in cui consiste la posizione di Freud. Freud infatti non ha fatto altro che salvare di nuovo il Padre. “Imitando Gesù Cristo. Modestamente, certo”, com’ebbe a dire Lacan nel corso del suo Seminario Ancora.
Jacques-Alain Miller, nella discussione, apporta un altro elemento chiarificatore. Joyce nel Dedalus si “costruisce” un ego. Si tratta forse di un ego che funziona come un oggetto per il nevrotico ossessivo? Miller precisa che, sebbene nel suo romanzo autobiografico si costruisca un ego, ossia un io di questo tipo, non sembra proprio che Joyce corrisponda a questa struttura.
Effettivamente nel Seminario Il sinthomo Lacan ricorda che l’ ego di Joyce è un ego non comune, è di tutt’altra natura. Non solamente non è la forma dell’ ego comune che corrisponde all’io come oggetto, ma non è neppure la forma dell’ ego cattolico, sebbene tutto il Dedalus attesti questa formazione, da Joyce ampiamente detestata. Si tratta insomma di un ego singolare, un ego che appartiene al solo Joyce. Oserei dire che si tratta di un Un-ego, espressione del sinthomo joyciano. Freud considerava che tutto si regge sulla funzione del padre. Lacan propone che in Joyce è questo ego a farne la funzione. Si tratta di un ego che è un artificio di scrittura tramite cui viene ripristinato il nodo borromeo.
In questo numero de La Psicoanalisi, oltre al testo di Jacques-Alain Miller tratto dal suo Corso, abbiamo una serie di articoli scritti da noti studiosi, sia dal punto di vista della letteratura come dal punto di vista della psicoanalisi.
Ringraziamo Thomas Corey, artista di origini irlandesi, che ha delineato per questo numero della rivista il ritratto di James Joyce.
L’inconscio è Baltimore all’alba
A Baltimore, negli Stati Uniti, nel quadro del Simposio internazionale «The Languages of Criticism and the Sciences of Man» che si tenne dal martedì 18 ottobre al venerdì 21 del 1966 al The Johns Hopkins Humanities Center, Lacan intervenne il giovedì con un intervento dal titolo Of Structure as an Immixing of an Otherness Prerequisite to Any Subject Whatever.
Richard Macksey e Eugenio Donato, organizzatori del Simposio che si teneva sotto l’egida della Johns Hopkins University, avevano dato inizio ai lavori in cui erano intervenuti, li citerò tutti, data la loro importanza, René Girard, Charles Morazé, Georges Poulet, Jean Pierre Vernant, Lucien Goldmann, Tzvetan Todorov, Roland Barthes, Jean Hyppolite, Guy Rosolato, Neville Dyson-Hudson, Nicolas Ruwet e Jacques Derrida. Roman Jakobson figura nel novero dei commentatori.
Jacques-Alain Miller indica che non poteva attribuire il testo sic et simpliciter a Lacan per i motivi da lui indicati più avanti. Ed è per questo motivo che ha deciso di far precedere il nome di Lacan da un «Secondo».
Il lettore noterà che Lacan, pur intervenendo in un Simposio che verteva sulla struttura, inserisce un elemento che la struttura, di per sé, non contempla: il soggetto. Certo, l’inconscio è intercettato tramite le parole, e in quanto tale è strutturato come un linguaggio. E Lacan precisa per evitare malintesi : come un qualunque linguaggio parlato dalla gente.
Tuttavia l’inconscio solleva una problema che tocca la natura del linguaggio nel suo punto più sensibile. Problema che, anche nell’uso del linguaggio comune, passa quasi sempre inosservato: ossia la questione del soggetto. Freud, ricorda Lacan, ci ha insegnato che l’inconscio è fatto di pensieri, ma ciò che pensa è barrato dalla coscienza.
Non è la struttura che preoccupa Lacan, ma il soggetto. La struttura serve, e finché serve, per cercare di situarlo.
Così Lacan si concede un magnifico pezzo di precisione e di poeticità che lo porta a un’inedita definizione dell’inconscio: «L’immagine migliore per riassumere l’inconscio è: Baltimore all’alba». È il soggetto, il soggetto dell’inconscio, al centro di questa inedita definizione del soggetto. Soggetto che continua a essere al centro delle sue preoccupazioni e che rispunta, chiaramente, nel suo passaggio sul paradosso di Russell. Il tema si concentra in un pezzo (da intendersi come pezzo musicale) di inaudita bellezza nel paragrafo intitolato da Jacques-Alain Miller «Il soggetto tra perdita e mancanza». Forse per ovviare alle proteste dell’uditore americano non abituato alla sua lingua, Lacan concede una finale precisa ma chiara : «Tutto ciò che è elaborato dalla costruzione soggettiva sulla scala del significante nella sua relazione con l’Altro e che prende radice nel linguaggio esiste solo per consentire al desiderio, in tutte le sue forme, di avvicinarsi, di testare quel tipo di godimento interdetto che è l’unico senso valido offerto alla nostra vita».
La copertina, disegnata e gentilmente offertaci da Marco Tirelli, e molti testi di questo numero girano attorno al problema ‘voce’. Oltre a conferenze di diversi colleghi, abbiamo inserito la trascrizione di alcune tavole rotonde in cui si è dialogato attorno a questo tema. Preziosa è stata, tra le altre, la partecipazione di Romeo Castellucci, Piersandra Di Matteo e Marie-Hélène Brousse.
Bion, Lacan e l’istituzione
Lacan e Bion.
Anzi, Bion e Lacan.
Ci raccontano che Bion non avesse una grande stima per il Lacan psicoanalista – almeno così viene detto nell’intervista concessa da Albert Mason a Sabrina Di Cioccio, curatrice di questo numero della rivista. Al contrario, sappiamo che Lacan aveva stima, ammirava la soluzione che Bion aveva trovato per delle situazioni che rasentavano l’insubordinazione e che, soprattutto in tempo di guerra, non possono essere tollerate. La soluzione di Bion era inedita. Lacan, al di là della fattibile operatività dell’invenzione bioniana, percepisce che si tratta di una soluzione che risuona con quanto egli stava elaborando sulle dinamiche del funzionamento dell’inconscio. Come sappiamo Lacan a volte anticipa se stesso, e per arrivare a farne insegnamento ci mette poi quel tempo che ci vuole con un lento movimento che si concretizza in un lampo. L’ossimoro σπεῦδε βραδέως o, se vogliamo ricorrere alla traduzione latina cara ad Aldo Manuzio, festìna lente, fu a detta di Svetonio il motto di Augusto – ed è il motto di Lacan.
È così che nasce il ‘cartello’. Elemento funzionale che Lacan arriva a proporre alla sua Scuola come uno strumento essenziale per coloro che sono presi dal discorso analitico: il cartello è il risultato della riflessione di Lacan sul funzionamento del gruppo bioniano. Riflessione che Lacan svilupperà inoltre su ciò che noi chiamiamo ‘istituzione’.
C’è inoltre un altro punto in cui si nota la vicinanza nell’elaborazione sulla teoria analitica che hanno sviluppato questi due grandi analisti, senza però che questa volta ci sia – a mia conoscenza – una qualche influenza: faccio riferimento all’analista senza memoria di Bion o all’analista di Lacan che è presente in ogni seduta come se fosse sempre la prima.
L’inedito di Lacan in italiano è la traduzione di un testo che Lacan pronunciò in tedesco ed è sulla Cosa freudiana. Il testo di Jacques-Alain Miller, invece, ci apre la porta all’ultimo insegnamento di Lacan. Laddove Lacan si lascia guidare non più, o non solo, da Freud-Virgilio, ma soprattutto da Joyce-Virgilio, poiché, interrogando la sua pratica di scrittura, arriva a mettere a fuoco “ciò che c’è di singolare in ogni individuo”, ossia il sinthomo.
Religione, psicoanalisi
“Caro vecchio mio – scrive Félicien Rops all’amico François Teelemans nel 1878 – ti invio la Tentazione. Il soggetto si capisce facilmente: il buon sant’Antonio, assediato da visioni libidiche, si precipita sull’inginocchiatoio, ma in quel frangente, Satana – un buffo monaco rosso – si fa burle di lui: gli toglie il suo Cristo dalla croce e lo rimpiazza con una bella donna. […] Devi assolutamente togliere dalla testa della gente ogni idea di attacco alla religione o di eroticità. Una bella donna […] può essere ritratta senza alcuna idea di licenziosità. Il nudo non è erotico. Per quanto riguarda la religione, essa non viene affatto attaccata”.
Edmond Picard comprerà l’opera e la terrà ben coperta nel suo appartamento dell’avenue de la Toison d’or a Bruxelles. Pochi potranno vederla. Con questo quadro l’artista, a suo dire, “aveva voluto dipingere un’epoca”. L’epoca è quella del diciannovesimo secolo, in cui “occorreva resistere alla colpa per mezzo della colpa stessa” e “vivere la propria coscienza nel male”: coscienza bifronte che nella crocifissione inchiodava, facendo cadere insieme – etimologia del termine sintomo – ciò che doveva invece rimanere separato.
Era anche l’epoca di Freud, che aveva avuto modo di interessarsi a questo quadro, presentato in due sole occasioni, nel 1884 e nel 1887. Scrive Freud nel 1906:“Una nota acquaforte di Félicien Rops illustra, in modo assai più chiaro di quanto si possa fare con numerose spiegazioni, questo fatto così poco osservato e così degno invece di considerazione [ossia che “proprio ciò che è stato scelto come mezzo di rimozione diventa il portatore di ciò che ritorna; nel rimovente stesso e dietro ad esso si afferma alla fine vittorioso il rimoso”], e precisamente lo illustra per il tipico caso della rimozione nella vita dei santi e degli asceti”.
In fondo, si tratta, ancora una volta, di una versione del complesso di edipo: dietro la figura dell’ideale che cade trafitto si profila il godimento interdetto che ritorna con insistenza. Forse Freud è spaventato della sua scoperta. Senza saperlo, farà di tutto per rimettere in sesto il Cristo sulla croce. Per questo Lacan potrà dire che la visione di Freud è cristocentrica: come se il suo compito ultimo fosse stato quello di salvare il Padre. “Imitando Gesù Cristo. Modestamente, certo”.
Finché il Cristo crocefisso rimane l’icona dell’ideale e la donna crocefissa quella della libido i margini di manovra sono ridotti. Per questo motivo la maggior parte dei seguaci di Freud si sono impegnati a restaurare il Padre. Da parte sua la Chiesa ha a lungo tuonato contro il pansessualismo freudiano, cieca anche lei sulle vere poste in gioco – ma non era compito suo vederci chiaro in questo settore.
Tutti questi fili saranno ripresi da Lacan. Dire che lo fa in modo palese sarebbe un eufemismo. La rotta è stata da lui solo indicata, ma la strada è tutta in salita. Il problema non si risolve con l’opposizione tra l’ideale e il godimento, poiché sono due facce della stessa medaglia. Per questo Lacan potrà dire cheDio e La donna sono lo stesso genere di droga. Ma da questo farmacon, non si constata solo la ineluttabile necessità del male, come già aveva saputo fare sant’Agostino, ma Lacan ne ricava anche l’obbligo di superare quella logica che si attesta su una visione fallocentrica del godimento. Ecco perché egli può arrivare a dire: “E perché non interpretare un volto dell’Altro, il volto Dio, come quello che è sostenuto dal godimento femminile?”.
Qualche anno dopo, egli si spingerà a dire che “la grande necessità della specie umana è che ci sia un Altro dell’Altro. E’ quello che generalmente si chiama Dio. Ma che l’analisi svela essere semplicemente La donna”.
Ora, come si risolve questa “necessità della specie umana” con il fatto che non c’è l’Altro dell’Altro, che Dio non esiste e La donna neppure?
Per quanto riguarda l’esperienza psicoanalitica Lacan indica quel filo rosso che permette all’analizzante di sintonizzarsi su ciò che gli è più personale, e che realizza il suo più intimo rapporto con il godimento: il sinthomo.
Ma così come la pone Lacan, la problematica è più vasta e va al di là dell’operazione analitica, poiché tocca ogni credenza e ogni pratica che si appoggia su un’ideologia o una teoria. Per questo motivo si tratta di una facenda che concerne non solo la religione, e non unicamente quella cristiana, ma la società e addirittura la scienza.
Lacan e la Cina
“Mi sono accorto di una cosa: forse sono lacaniano solo per aver studiato un po’ di cinese in altri tempi”, disse un giorno Lacan al suo seminario. Lacan aveva studiato il cinese con Paul Demiéville negli anni della guerra e lo riprenderà nel 1969 con François Cheng, il quale gli presentò, come primo testo da studiare, il capitolo primo del libro di Laozi. Eccone l’inizio nella versione tradotta dal poeta cinese, accademico di Francia:
La Via che può essere detta Via
Non è l’eterna Via
Il nome che può essere nominato
Non è l’eterno Nome
Senza nome: Cielo-e-Terra ne provengono
Il Nome: Madre-di-ogni-cosa
Sempre senza desiderio consideriamo il Germe
Sempre con desiderio consideriamo il
Termine Doppio-nome derivato dall’Uno
Questo due-uno è mistero
Mistero dei misteri
Porta di ogni meraviglia
Lacan era sorpreso, dice François Cheng, che il termine Tao significhi contemporeaneamente la Via e il parlare (o l’enunciazione). Non è l’unico apporto della cultura cinese ad aver interessato Lacan. Basterebbe pensare al riferimento al wu wei, a quell’agire senza agire in cui ritrova il principio cardine della pratica analitica, o ancora all’interesse per il dialogo che Mengzi intesse nel collegamento tra xing e ming, tradotti con natura e destino. Questo numero della rivista offre una panoramica dell’interesse di Lacan nei confronti della cultura cinese, e che è il frutto di un convegno che ha riunito sinologi, filosofi e psicoanalisti su questo tema.
Non è tuttavia l’unico apporto di questo numero. L’inedito in italiano di Lacan consiste nel suo intervento finale alle Giornate di studio dell’École freudienne de Paris che si tennero a Lille nel settembre 1977, e, oltre ad altri articoli, segnaliamo il testo di Jacques-Alain Miller Che cosa vuol dire essere lacaniani?, che è una ripresa di parte del suo Corso tenuto al Dipartimento di Psicoanalisi dell’Università di Parigi VIII nel 1997, mentre pubblichiamo in questo numero le sue ultime lezioni del Corso del 2010-2011, dal titolo L’Essere e l’Uno.