La Repubblica – 8 settembre 2011
“TRA SEDUTE E SEMINARI HO VISSUTO LA SUA UTOPIA”.
Luciana Sica
«Ero il suo “mon cher monsieur Di Sciascià”, mi chiamava così». Antonio Di Ciaccia, traduttore e curatore dell’opera di Jacques Lacan, ha 28 anni nel ’72 quando incontra il maestro all’École freudienne de Paris. «C’era stato un convegno, ma lo avevo visto uscire durante il mio intervento. La sera lo incontro a un rinfresco pieno di gente, mi passa vicino, gli do la mano e lui mi fa “Antonio!”. Preso alla sprovvista, chiedo “ma come fa a sapere il mio nome?! …”L’ha detto stamattina”. E ripete una mia frase: “davanti alla propria donna, un analista non è un analista”. A quel tempo ero in una situazione personale molto critica, cosa che lo ha interessato davvero molto».
Perché?
«Perché allora ero un prete, e vivevo in un convento. Dopo la laurea in Teologia, studiavo Psicologia a Lovanio, in Belgio. Ma mi ero innamorato e la mia vita era stata messa a soqquadro. La passione per un ideale era entrata in collisione con una passione fatta di carne».
Allora comincia l’analisi con Lacan.
«Si, ed è durata fino alla sua morte… All’inizio doveva essere solo un “controllo”, ero già in analisi, ma lui mi fa capire rapidamente che devo parlare di me: “Bisogna scegliere, ragazzo mio. Bisogna scegliere”. Ma raccontare le sedute con Lacan è difficile, proprio perché non assomigliano a niente».
Intanto lei frequenta anche il seminario del ’72 – ’73 sul godimento femminile, proprio quello in uscita da Einaudi col titolo Ancora. Com’è stato ascoltare dal vivo il suo maestro?
«Il seminario m’ha preso molto, almeno per una ragione: con Encore – che nella pronuncia francese può significare anche “un corpo” e “in corpo” – la jouissance della donna si situa in una dimensione mistica. E io, Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avilia li ho letti a sedici anni. All’epoca capivo un millesimo di quello che diceva Lacan, mentre oggi – avendo a disposizione tutti i suoi seminari – penso di aver colto quella sua logica ferrea per quanto a tratti astrusa».
Un po’ astruso è questo “Libro XX” – come sempre “stabilito” da Jacques-Alain Miller, genero e custode del Verbo lacaniano. C’è una traccia per renderlo più accessibile?
«”Che cosa vuole una donna?”: Lacan riprende quella domanda irrisolta che l’ultimo Freud formula nel ’33, sei anni prima di morire. E tenta una risposta, che non poco ha intrigato il femminismo e il suo pensiero della differenza. La donna – dice Lacan – è presa da un godimento che non è quello maschile e non ne è complementare, ma è di più, è qualcos’altro. Se il godimento maschile è centrato su una sola parte del corpo, quello femminile si fonda invece sulla singolarità e può condurre all’esperienza della gioia mistica. Se il maschio gode del suo potere, la donna può godere della sua pura esistenza, e da oggetto di piacere diventare causa del desiderio.
Come a dire: nel godimento, la donna rivendica di non essere una, ma unica?
«La donna che dice “Io sono l’unica!” è folle – e lo stesso vale per gli uomini, che in genere però non si sentono unici ma piuttosto “l’eccezione”. Quello che Lacan indica è che le donne, ma eventualmente anche gli uomini, possono arrivare a un’unicità che corrisponde al loro essere. A dire qualcosa come “io sono questo, riesco a essere così, e questo godimento è mio e di nessun altro”… Per Lacan, è poi lo stesso analista che deve attenersi alla posizione femminile, spingendo il paziente a essere non “come tutti”, ma come è”. E sul piano politico, forse oggi somiglierà anche a un’utopia, c’è un forte antagonismo a una società ordinata nel segno della gregarietà e la “scoperta” che ognuno, uno per uno, ha da dire qualcosa di creativo”.
Oggi lei che ricorda soprattutto di Lacan?
«Ricordo un uomo molto vivo, che ti metteva di fronte al tuo problema in un modo altrettanto vivo. Sembrava irruento, aveva un atteggiamento del tipo “e dai, muoviti!”. Era sempre ironico, si prendeva gioco del mondo e di sé, non si prendeva sul serio e anzi era anche infastidito da tutta quell’attenzione…»-
Negli ultimi anni Lacan tende a cadere nell’afasia, disegna nodi borromei, ha comportamenti sconcertanti con i pazienti che arriva anche a maltrattare… A lei sembrava equilibrato?
«Io l’ho sempre visto normale. Tranquillo, tranquillissimo».
Lacan per lei non rappresenterà una religione laica?
«Direi proprio di no, o almeno lo spero. Per me lui è uno che ha capito come funziona questo coso che chiamiamo inconscio: palpitante come un cuore, una bocca, una zona erogena che si apre e si chiude».