Uno psicoanalista accoglie la parola sofferente di un soggetto che la contingenza ha fatto incontrare con lui. Il legame che ne nasce è di un tipo nuovo tra quelli che si sono costituiti storicamente nella società umana: un legame in cui, di principio, si parla a qualcuno senza vincoli o restrizioni di sorta, dicendo “quel che viene in mente”, senza censura. Che poi, in analisi, si faccia esperienza della difficoltà ad attenersi a questo principio di “libera associazione”, non inficia ma ribadisce l’orientamento impresso dal principio suddetto. Il vettore dominante l’esperienza analitica spinge la parola in questa dimensione originale, entro la quale l’analizzante si inoltra e di cui l’analista si fa il garante. Egli quindi accoglie una parola marcata sempre più dall’intimo di una storia, dal sogno, dalla fantasia, in particolare quella che è più difficile confessare, celata dal velo della vergogna. Se l’analista è “scriba”, come diceva Lacan negli anni ’50, egli lo è di ciò che altrimenti non avrebbe diritto di cittadinanza, perché non adatto a entrare nella circolazione della comunicazione sociale, o perché lo si riterrebbe inutile, o perché non conveniente. Egli è quindi lo scriba di ciò che nella parola è scarto della consuetudine sociale dominante e, di conseguenza, la sua posizione di psicoanalista è marcata da un certo grado di esteriorità rispetto a tale consuetudine. Come diceva Lacan, la psicoanalisi è il “rovescio” del discorso dominante, il “discorso del padrone”, è un modo nuovo di parlare a qualcuno e di ascoltare ciò che qualcuno dice di sé, un modo a rovescio di quel che è operante nella vita di tutti giorni per ciascuno di noi. Jacques- Alain Miller diceva recentemente che è una parentesi, che ogni seduta di analisi è una parentesi nel flusso insistente e sistematico dell’operatività dominante in cui ciascuno è inserito, volente o nolente. Una parentesi in cui si decanta quel che è messo a lato dal discorso del padrone.