Nel Libro VIII del Seminario, dedicato al transfert, Lacan prende in esame, in modo molto dettagliato, il Simposio di Platone. Lacan vedeva in Socrate uno psicoanalista ante litteram. Un personaggio capace di suscitare un vero transfert simbolico, e non già quella semplice suggestione immaginaria a cui ricorrono tutti i guru e a volte gli analisti stessi. Socrate era all’altezza di un transfert che gli permetteva d’interpretare in modo giusto la causa del desiderio di Alcibiade. Ma ancor più, Socrate eccelleva, secondo Lacan, nel presentare senza mezzi termini le due basi su cui egli si sosteneva: il non saper niente, a parte ciò che concerne le cose dell’amore, e il suo essere niente.
La passe è il merito di questo numero della rivista. Ogni AE (Analyste de l’Ecole, titolo a cui si accede tramite la passe e che viene accordato su decisione del cartello che ha ricevuto dai due passeurs la testimonianza del passant) parla a nome proprio. Non c’è un manuale che faciliti la nomina ad AE per uno psicoanalizzante che desideri farsi passant della propria analisi. Non c’è un manuale, non ci sono standard per diventare analista. Eppure ci sono degli AE, degli analisti che, dopo la passe e a causa di essa, sono riconosciuti come tali dalla Scuola Una. Parlo della Scuola Una poiché è un titolo che, sebbene venga conferito solo da uno dei cartelli delegati a questo scopo, è riconosciuto come tale da tutte le Scuole del Campo freudiano.
Il nostro è un mondo senza vergogna.
Senza vergogna si mette in piazza ogni più intimo sentimento. Anzi, più spudorati si è e più si fa cassetta nei circuiti del Grande Fratello. La televisione ha lasciato ormai dietro di sé il pur labile rapporto con il teatro, non solo nella sua versione tragica ma anche in quella comica, per accostarsi sempre di più a una forma di pornografia che si vorrebbe soft ma in realtà è hard poiché proietta i suoi videodipendenti nel girone dello voyerista svergognato.
Sottolineo solo un punto. Ogni analizzante è un freudo-aristotelico, dice Lacan, poiché crede poter risolvere la sua questione – questione che gli si dispiega nel particolare del suo sintomo – tramite il ricorso al linguaggio, e quindi all’universale. Insomma, come Aristotele, ogni analizzante sogna: sogna che il linguaggio, ossia l’universale, mettendo in forma il particolare del sintomo dica la verità della sua singolarità. Ecco perché l’analizzante è allievo di Aristotele. Per il semplice motivo che la logica che il grande filosofo era riuscito ad articolare è quella del significante: per Aristotele, come per Freud, l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Irridendo Freud in altri passi e Aristotele in alcuni passaggi del Seminario XVIII, Lacan fa notare che si tratta dello scotto che tutti e due pagano per il fatto di aver connotato l’altra metà del mondo con i sembianti dell’isterica. All’isterica, Lacan sostituisce La donna – al singolare, e cioè quella che non c’è – e le donne – e cioè quelle che, invece, ci sono, eccome!
Ancora una volta La Psicoanalisi si volge verso il cinema. Lo fa riprendendo gli interventi di un piacevolissimo convegno che i nostri Colleghi di Venezia hanno organizzato presso l’Istituto veneto delle Scienze, Lettere e Arti, nella sede del palazzo Franchetti sul Canal Grande, il 2 e 3 febbraio 2006, a partire da un’idea di Chiara Mangiarotti che ha trovato una felice sponda in Emmanuelle Ferrari, direttrice della Délégation Culturelle de l’Ambassade de France-Alliance française a Venezia. La presenza di Judith Miller e di Benoit Jacquot hanno permesso di gettare qualche luce sulla programmazione e la realizzazione della ripresa di Télévision di Lacan, organizzata da Jacques- Alain Miller e di cui Jacquot era stato il regista.
A questo numero della rivista avremmo potuto dare come titolo la trasmissione nelle generazioni. Vi si trovano infatti due modalità di trasmissione: una che riguarda quella che si realizza nelle generazioni così com’è vissuta nella nostra società attuale, un’altra che riguarda quella particolare trasmissione che produce delle generazioni di tutt’altro ordine e che avviene nell’ambito prettamente analitico.
Nel primo caso il veicolo di trasmissione è la famiglia, nonostante tutte le varianti che la nostra società ipermoderna comporta. Nel secondo caso il veicolo di trasmissione è da reperire all’interno delle Società o, come le chiamiamo noi, allievi di Lacan, Scuole di psicoanalisi.
Politiche del sintomo nell’arte, nella scienza e nella clinica psicoanalitica è stato il tema dell’incontro che avvenne qualche tempo fa tra psicoanalisti della Scuola di Lacan nella straordinaria Bilbao. Straordinaria perché i baschi hanno saputo ravvivare una città, nata con vocazione industriale e avviata verso una lenta decadenza, facendola risorgere attorno a una Cosa, un oggetto strano, perturbante, intrigante, che con la sua architettura regala al visitatore uno spazio nuovo e inedito: il Guggenheim di Frank Gehry, “il punto G della città” – come lo ha chiamato Eric Laurent nella sua lectio magistralis – e che abbiamo voluto riprodurre nella copertina di questo numero della rivista.
Dal cinema Lacan imparava. Dal cinema ricavava un insegnamento sulla struttura, sul funzionamento dell’inconscio. Come ci ricorda Judith Miller nel breve testo che ha gentilmente inviato alla nostra rivista per questa occasione, per suo padre “andare al cinema non era […] un momento di distrazione: un film era un’opera, come un testo”. Insomma un film “sottolineava una struttura, illustrava una formazione dell’inconscio o delimitava un impossibile, si leggeva come un testo e convocava tropi specifici”. E’ la lezione che Lacan ci dà quando si accosta all’opera di un regista. Quando parla di El di Buñuel, de La dolce vita di Fellini o de L’impero dei sensi di Nagisa Oshima. Lezione che già conoscevamo quando si accosta all’opera di uno scrittore, di un poeta, di un artista.
Rispetto ai principi che erano alla base della cultura scientifica appena una cinquantina di anni fa, l’attuale cultura della tecnoscienza contemporanea si caratterizza per un notevole cambiamento di sensibilità e di impostazione. Non troviamo più, come allora, in primo piano l’imprevedibilità della ricerca creativa, con i propri oggetti e i propri tempi, bensì il pensiero che la scienza debba servire certi problemi, che il ricercatore deve confrontarsi con l’obbligo dei risultati, accompagnati da una valutazione ex ante ed ex post dagli stessi, il che tende a conferire alla ricerca un carattere sempre più strumentale e ci si occupa di seguire l’innovazione tecnologica piuttosto che lo sviluppo delle teorie scientifiche.
Meraviglioso Lacan! E sconcertante! Tre anni prima di morire, concludendo il Congresso della sua Scuola sul tema della trasmissione della psicoanalisi – Scuola che avrebbe disciolto due anni dopo – scuote l’uditorio con frasi che pesano come macigni. Ma forse l’Ecole freudienne de Paris era già entrata in letargo, forse era già morta e non lo sapeva, forse l’ascoltava con l’aria annoiata di chi ha fretta di finire l’ennesima replica delle liturgie congressuali e far passare le sue frasi nel dimenticatoio senza rendersi conto o senza voler rendersi conto che già solo il tema del Congresso avrebbe dovuto svegliare l’assistenza dei suoi allievi. “Dico assistenza, ma non mi assiste”, dice ironico, e continua, triste: “In mezzo a tanta assistenza, io mi sento particolarmente solo”. Nonostante avesse poco prima elogiato, forse irridendola un po’, tutta quella folla presente al Congresso.