“Senza standard ma non senza principi” è il motto della psicoanalisi lacaniana. È in questa insegna che gli psicoanalisti lacaniani di tutte le Scuole dell’Associazione Mondiale di Psicoanalisi (AMP) si riuniranno tra qualche mese in Brasile, a Commandatuba, per il loro consueto convegno biennale.
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Ancora un numero de La Psicoanalisi sulla femminilità. E non sarà di certo l’ultimo. Perché il futuro, pensiamo noi, è da quella parte.
Il futuro della psicoanalisi, per esempio. Sebbene Freud sia stato così spesso frainteso proprio dalle appartenenti al gentil sesso, il suo primato fallico è stata la chiave che ha permesso a Lacan di aprire una porta che era rimasta murata per secoli. E che forse, lo temo e ne tremo, potrebbe rimurarsi di nuovo.
È stato necessario infatti, prima, pagare lo scotto alla logica del funzionamento dell’inconscio per quello strano primato fallico proposto da Freud. Forse strano non è, dato che tutta la civiltà si basa su di esso, eppure strano lo è, almeno nel senso che resta sempre ciò che è rimosso: il fallo è talmente evidente che è invisibile.
Uno psicoanalista accoglie la parola sofferente di un soggetto che la contingenza ha fatto incontrare con lui. Il legame che ne nasce è di un tipo nuovo tra quelli che si sono costituiti storicamente nella società umana: un legame in cui, di principio, si parla a qualcuno senza vincoli o restrizioni di sorta, dicendo “quel che viene in mente”, senza censura. Che poi, in analisi, si faccia esperienza della difficoltà ad attenersi a questo principio di “libera associazione”, non inficia ma ribadisce l’orientamento impresso dal principio suddetto. Il vettore dominante l’esperienza analitica spinge la parola in questa dimensione originale, entro la quale l’analizzante si inoltra e di cui l’analista si fa il garante. Egli quindi accoglie una parola marcata sempre più dall’intimo di una storia, dal sogno, dalla fantasia, in particolare quella che è più difficile confessare, celata dal velo della vergogna. Se l’analista è “scriba”, come diceva Lacan negli anni ’50, egli lo è di ciò che altrimenti non avrebbe diritto di cittadinanza, perché non adatto a entrare nella circolazione della comunicazione sociale, o perché lo si riterrebbe inutile, o perché non conveniente. Egli è quindi lo scriba di ciò che nella parola è scarto della consuetudine sociale dominante e, di conseguenza, la sua posizione di psicoanalista è marcata da un certo grado di esteriorità rispetto a tale consuetudine. Come diceva Lacan, la psicoanalisi è il “rovescio” del discorso dominante, il “discorso del padrone”, è un modo nuovo di parlare a qualcuno e di ascoltare ciò che qualcuno dice di sé, un modo a rovescio di quel che è operante nella vita di tutti giorni per ciascuno di noi. Jacques- Alain Miller diceva recentemente che è una parentesi, che ogni seduta di analisi è una parentesi nel flusso insistente e sistematico dell’operatività dominante in cui ciascuno è inserito, volente o nolente. Una parentesi in cui si decanta quel che è messo a lato dal discorso del padrone.
Che rapporto c’è tra soggetto e inconscio e quella soggettività che le neuroscienze presentano oggi? Per le neuroscienze la soggettività si situa a livello della coscienza che esse individuano nel reale dei circuiti neuronali. Per la psicoanalisi, almeno quella di orientamento lacaniano, il soggetto è invece effetto del significante. Come scrive Luisella Mambrini, che ha curato la rubrica sulle neuroscienze in questo numero, abbiamo “da una parte la soggettività della coscienza riflessa, dall’altra il soggetto come effetto del significante ma anche come sostanza godente” .
Il lettore troverà in questo numero alcune indicazioni su questa problematica, sebbene credo sia importante che tenga presente, per comprendere appieno la posizione dell’orientamento lacaniano, un testo di Jacques-Alain Miller già pubblicato sul n. 28 della nostra rivista dal titolo “Biologia lacaniana ed eventi di corpo”.
Signore e signori,
sono lieto di dare inizio oggi al Convegno che la Scuola lacaniana di psicoanalisi del Campo freudiano ha organizzato qui a Roma per celebrare il centenario della nascita di Jacques Lacan.
Questo centenario segue di poco il centenario della psicoanalisi stessa, celebrato da tutti coloro che fanno riferimento alla scoperta freudiana e all’invenzione della pratica psicoanalitica. La vita di Jacques Lacan, infatti, si è svolta nello stesso arco di tempo in cui ha preso inizio e si è sviluppata la psicoanalisi.
Jacques Lacan inviò nel 1973 una missiva a tre personaggi residenti in Italia con l’intento di dare inizio a una Scuola italiana di psicoanalisi che avrebbe dovuto prendere forma nel 1974. Come spesso capita nel campo psicoanalitico, la missiva fu ricevuta ma non arrivò a destinazione. Lacan stesso lo segnala: “Le persone in questione non daranno seguito alle suggestioni qui proposte”, scrisse di suo pugno sui fogli, ancora inediti, di questo testo che sarà pubblicato, con questo appunto, nel 1982 sulla rivista Ornicar?, n. 25.
Forse i tre personaggi presero la nota inviata loro come testimonianza della loro posizione, come prova della loro prestanza, forse la presero invece sotto gamba, mettendola tra le altre carte, forse la presero addirittura come un’ennesima trovata del Maître. Non lo sappiamo.
Nel suo Seminario di Caracas, pronunciato all’apertura del primo Incontro internazionale del Campo freudiano, Lacan si interroga sul corpo, sul godimento del corpo, sull’intreccio unico e paradossale che annoda godimento e linguaggio sul corpo di quegli animali che parlano. Non si tratta degli animali che comunicano. Per comunicare tra di loro, molto probabilmente tutti gli animali sono molto più bravi di quegli animali che chiamiamo uomini. Si tratta degli animali che parlano. Di quegli animali cioè che usano sì la parola per comunicare in un continuo e perpetuo equivoco, ma soprattutto la usano per godere. Godere che si iscrive, in diversi modi, sul corpo. Corpo in cui si leggono segni, come accade all’isterica, come geroglifici di un linguaggio rimosso e tuttavia attivo. O come nell’Uomo dei topi, sul cui volto Freud osserva un “orrore di un proprio piacere a lui stesso ignoto”.
In un numero precedente, il n. 24 per l’esattezza, La Psicoanalisi ha pubblicato uno studio monografico sull’amore. Vi si diceva che nell’insegnamento di Lacan l’amore era una della passioni fondamentali dell’uomo. Con l’odio e l’ignoranza.
Passioni dell’essere, le chiama Lacan: in opposizione alle passioni dell’anima, tramite cui egli designa gli affetti, come l’emozione, la noia, la paura, la tristezza, il cattivo umore, perfino l’angoscia che è l’unico affetto che non mente. Gli affetti sono gli effetti di cui il corpo patisce di un pensiero che pensa al di là della padronanza che si ha su di lui: inconscio, lo chiamò Freud.
L’odio, invece, e l’amore e l’ignoranza non sono passioni dell’anima, non sono ciò di cui il corpo patisce a causa del linguaggio. Sono invece passioni dell’essere.
Lacan perplesso di fronte alla traduzione giapponese dei suoi Scritti! Sicuramente altrettanto perplesso quanto un Giapponese che cercherà di leggerli! Ma se la perplessità è la stessa, i motivi sono del tutto diversi.
Il Giapponese, infatti, non vi troverà, nella traduzione degli Scritti, se non un testo che traduce un discorso in un altro discorso. Voglio dire: non solo tradotto da una lingua in un’altra, dal francese in giapponese (cosa che deve essere di una difficoltà spaventosa), ma tradotto dal discorso analitico in un altro discorso. In questo caso il traduttore-traditore snatura, volens nolens, il discorso analitico stesso, come fece notare Lacan nel suo Seminario XVII. Il rovescio della psicoanalisi a proposito della “traduzione”(!) effettuata da Serge Leclaire di un’espressione chiave dell’insegnamento di Lacan, tradotta dal discorso analitico nel discorso universitario, e quindi tradito.
La rivista La Psicoanalisi ha voluto, con questo numero, rendere omaggio a Franco Basaglia.
E sulle intuizioni di Basaglia – e sulle conseguenze concrete che tali intuizioni hanno avuto nel campo della psichiatria e più in generale nel campo della salute mentale – diversi autori – alcuni, discepoli di Basaglia, e altri, allievi di Lacan – hanno scritto vari e interessanti articoli.
Noteremo nei diversi autori l’accento posto sulla modernità di Basaglia, sugli interrogativi circa la malattia mentale, le tecniche in uso che cambiano le strutture istituzionali psichiatriche, la prassi che porta l’abolizione degli ospedali psichiatrici e, infine, la sfiducia nella psicoanalisi, come metodo e come teoria.
Eppure un autore intitola il suo saggio “Basaglia con Lacan”, indicando in tal modo la possibilità di un annodamento tra le due opere.
Sottoscrivo la possibilità di questo annodamento e, pur lasciando al lettore il piacere della lettura di questi saggi, vorrei sottolineare due aspetti.