L’inconscio di Lacan è quello di Freud. Non è qualcosa di mistico o di ineffabile, non deve essere inteso come qualcosa che non sappiamo ancora ma che un giorno sapremo per una presa di coscienza più approfondita o per le vie delle neuroscienze. L’inconscio non è come un sacco che conterrebbe le esperienze rimosse, gli affetti reali o immaginari di un tempo, le esperienze traumatiche da far rivivere e che si ripescherebbero tramite le psicoterapie. Tutte queste cose non sono in un sacco, ma sono in superficie, presenti quando un soggetto parla, in ciò che egli dice, per esempio nella dimenticanza di un nome, nella vacillazione di una parola, nel lapsus o nel taglio del discorso, in cui sorge, all’improvviso, qualcosa come una trovata, una sorpresa, che Freud assimila al desiderio inconscio.
Dell’inconscio noi conosciamo le sue formazioni (ossia i sogni, i lapsus, gli atti mancati, eccetera), le quali si presentano come elementi di una rete. Questi elementi, che noi chiamiamo significanti, ritornano, rivengono, si incrociano, si intersecano e, sebbene evidenti o reperibili anche nella vita comune, diventano strumenti operativi nel corso dell’esperienza psicoanalitica, poiché rivelano, nello scarto tra quello che il soggetto vuol dire e quello che egli effettivamente dice dove, nel sintomo che lo fa soffrire, si annida uno strano godimento a lui stesso oscuro, di cui spesso si vergogna e di cui, comunque, non ne vuol saper niente.
Da qui Lacan deduce che l’inconscio è una struttura simbolica e non un contenitore immaginario: è questo il senso del suo aforisma l’inconscio è strutturato come un linguaggio.
Antonio Di Ciaccia